L’ultimo barone di Ripagrande

di Enrico Brizzi su 12 mesi - Smemoranda 2011





Il maniero del Barone che, per sua bontà, aveva deciso di crescermi come un figlio era incluso nella foresta di Ripagrande; appariva ai viaggiatori all’improvviso, come confitto tra le nebbiose faggete. Sorgeva a sette miglia di distanza dal primo abitato — un povero villaggio di tagliaboschi allietato, l’ultimo giovedì del mese, dalla presenza di mercanti forestieri, donne di dubbia onestà e notori tagliaborse.
Naturalmente, il mio nobile protettore non mi consentiva di mescolarmi a gente di simile mollezza morale.
“Ricordati sempre che noi, i baroni Avoncellis di Ripagrande, discendiamo direttamente dall’imperatore Costantino!” mi ammoniva quando mi comportavo male.
Poiché non era riuscito ad avere eredi maschi dalla baronessa Clotilde, fra tutti i bercianti neonati del mondo si era deciso ad adottare me. Quali che fossero i miei veri natali, non dovevo preoccuparmene: adesso anch’io discendevo da quel grande imperatore, e dovevo essere educato in maniera adeguata.
A questo scopo, il Barone ch’io chiamavo “babbo” aveva ingaggiato un precettore che arrivava direttamente da Pontemaggiore, la prima città dove si potessero incontrare persone bene educate. Distava tre giorni a cavallo, e il signor Robivari aveva fatto il suo primo ingresso al maniero fradicio di pioggia e completamente esausto.
Lo scortava Obart, il nostro fattore: “Il maestrino non è abituato a trottare” annunciò, come per discolpare il nuovo ospite. “Servirà ungergli il deretano con grasso di capra e succo di timo.”
Scoppiai a ridere, mio padre mi colpì con uno scappellotto, e Obart aiutò il signor Robivari a smontare.
Lo salutai per pura cortesia: mi sembrava non valesse una cicca, e sapevo che era arrivato per tenermi occupato in attività noiose come leggere e fare di conto.
Non avrei mai immaginato su quali orizzonti avrebbe spalancato la mia immaginazione.
Il signor Robivari m’insegnò l’abbicì sul Milione di Marco Polo, la mitologia greca con l’Iliade e l’Odissea, e nelle pause mi esaltava con il racconto del suo servizio militare nella Colonia orientale: “Una calma innaturale pervadeva l’acrocoro” era l’attacco di uno dei miei episodi preferiti. “Una calma innaturale pervadeva l’acrocoro: preludio di un attacco di quei tagliagole, non v’era dubbio. All’improvviso li vedemmo: sbucarono urlando da ogni anfratto, come assatanati, sventagliando le scimitarre e inneggiando al loro pantheon.”
Ardevo dal desiderio di crescere, arruolarmi, e andare di persona a combattere quei tagliagole che infestavano le nostre province d’oltremare: fu in quel periodo che, come la polvere di metallo s’infiltra sottopelle agli operai delle ferriere, mi entrò dentro la smania di viaggiare in paesi lontani.
Crebbi felice, mescolandomi ai figlioli dei tagliaboschi e, da quando la prima barba mi adornò il mento, anche ai bari e alle donne di malaffare che salivano al villaggio l’ultimo giovedì del mese.

Avevo diciassette anni quando, il giorno di sant’Uberto, il Barone mio padre morì all’improvviso.
Prima ancora che fossero celebrate le esequie, un pattuglione di parenti scortati dal fattore Obart e da un paio di azzeccagarbugli della capitale mi spiegarono che ero solo un impostore e che avrei fatto meglio a sloggiare dal maniero senza scandali; dovevo anzi ritenermi fortunato che non avessero ancora chiamato i birri per farmi mettere ai ceppi.
Fu una di quelle tempeste estive, senza preavviso, che non ti lasciano il tempo di guadagnare nemmeno il rifugio più vicino, e ti lasciano fradicio e inzaccherato.
Mi allontanai in lacrime dal maniero in groppa a Florestano, il mio cavallino preferito; come buonuscita, i parenti mi avevano allungato cinque marenghi d’oro che tenevo nella borsa; per il resto, non avevo che gli abiti sulla mia persona e i buoni insegnamenti del signor Robivari a farmi da guida.
Non li tenni granché a mente, scombussolato e giovane com’ero, in quei primi giorni della mia vita adulta, alla mercè di falsi amici e truffatori: non appena giunto a Pontepietra, mi sedetti a un tavolo d’osteria dove si giocava alla briscola crimeana. Persi due marenghi, prima di capire che i compagni mi avevano preso, come si dice, per il loro pollo.
Irato, e massimamente incerto sul da farsi, presi alloggio alla Locanda del Gatto; vagavo per la città in cerca di un’idea risolutiva  mettersi in coda davanti a una parrocchia e mendicare una scodella di zuppa? Rompere gli indugi e darsi al furto con destrezza? Non sapevo decidermi, e intanto i soldi per la pigione si consumavano.
Arrivai a vendere il mio buon Florestano allo stalliere della guardia civica, e toccai con mano l’abisso la notte fra il 25 e il 26 aprile 1845, lungo la strada dell’Argine vecchio: due marinai ubriachi, sbucati dalle baracche del porto fluviale, mi alleggerirono degli ultimi spiccioli e persino della camicia, prima di gettarmi per loro divertimento a capofitto nell’acqua gelida.
L’episodio sarebbe dovuto bastare a tenermi lontano tutta la vita da scafi, flutti ed equipaggi, invece la mattina dell’indomani, dopo avere dormito penosamente bagnato a pochi metri dalle banchine, individuai il peschereccio dei miei aggressori, mi portai all’estremità opposta del porto e feci domanda per il mio primo imbarco come mozzo a bordo del Principessa indiana, una grossa chiatta che trasportava a valle carichi di quelle pietre iridescenti per la quale la nostra valle è famosa, destinate ad essere tagliate in lastroni per decorare i palazzi della capitale.
Il viaggio durò tre settimane nelle quali me la cavai come cuoco, scandagliatore, piegavele e imparai dai tre fratelli che componevano l’equipaggio un certo numero di nozioni che mi sarebbero tornate utili più avanti.
Mi sbarcarono con la paga pattuita sul grande molo nord di Sempiterna, e da lì mi portai a piedi verso la costa mangiando pane e cipolle raccolte nei campi: mi dicevo che, a trovare dei buoni compagni, la vita a bordo era un paradiso.
Ebbi fortuna con il Nefertiti, un bastimento che viaggiava carico di cotone sino al Pireo, e tornava carico di vino greco; andò peggio con il Pallade: il comandante fu trattenuto a Zara dalla polizia austriaca, e nel mar Nero i pirati valacchi diedero l’arrembaggio al nostro vascello.
Inutile ricordare le umiliazioni che patimmo una volta trasbordati a riva sulle loro agili imbarcazioni a remi, mentre il Pallade dato alle fiamme ardeva come un fiore scarlatto pronto a inabissarsi; basti dire che, dopo sette mesi di quella vita bestiale, venni acquistato da un mercante ottomano che mi trascinò con la sua carovana sino a Costantinopoli, e lì mi rivendette a un sapiente armeno, che ritenne adatto impiegarmi come cameriere, senza riconoscermi alcuna paga e, anzi, frustandomi a più riprese.
Venuto in contatto con il personale diplomatico del nostro paese nella persona del conte Pecorazzi-Villalba, lo informai del mio penoso caso di occidentale ridotto in schiavitù, e quello non solo mi restituì la libertà, ma ottenne udienza dal Gran Visir e lo ammonì che non si verificassero mai più casi del genere.
Quando il Conte mi disse che i giornali, in patria, avevano scritto pagine intere sul mio caso, provai ritegno e lo supplicai che non mi costringesse a tornare laggiù.
“E dove volete andare, allora?” domandò facendo tanto d’occhi. “Non vorrete restare qui, spero!”
“Servirò meglio la patria nelle province d’oltremare” annunciai, ricordando i racconti del mio vecchio maestro. “Lasciate che mi unisca al nostro contingente nella Colonia orientale, signor Conte, e ve ne porterò sempre gratituidine.”
“E sia!” concesse quel brav’uomo, che Dio lo abbia in gloria.
Salii a bordo del primo vapore diretto laggiù, e viaggiai per tutta la colonia con addosso la giacca rossa e la penna di falco del XII battaglione mobile; ero in prima linea al Passo delle Manguste e ho visto coi miei occhi il gran capo dei banditi gettare la scimitarra e arrendersi.
Per un po’ laggiù siamo stati tranquilli: dopo il congedo sono stato anche sposato a due o tre donne di laggiù, per quello che significa il matrimonio nella Colonia orientale. Fui pioniere, tenutario di locanda, commerciante all’ingrosso di arachidi; mi ero, come si dice, fatto una posizione, quando appresi che il Fato aveva deciso di restituirmi ciò che mi aveva tolto.
I parenti si erano compromessi con i moti reazionari, un avvocato liberale si era appassionato al mio caso, e ora mi scriveva da Sempiterna il Gran giurì per informarmi che il vecchio maniero sprofondato nel bosco di Ripagrande apparteneva a me e solo a me.
Avevo quarantatré anni, quando rientrai sazio di avventure nei panni del barone di campagna; ne fui sollevato, ma forse era troppo presto: adesso che sono vecchio e non riesco più nemmeno a farmi portare al mercato l’ultimo giovedì del mese, per scherzare un po’ coi tagliaboschi e le ragazze allegre, mi assale il rimpianto.
Quante altre avventure avrei potuto vivere, se avessi ignorato la convocazione del Gran giurì e me ne fossi infischiato di titolo e maniero per restare in Colonia, o magari viaggiare ancora un po’ più in là?
Voi che siete ancora giovani ricordate quanto vi dico: mai tirare i remi in barca.
Mai.
Per riposarsi, ci sarà tempo più in là.


Enrico Brizzi


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