La casa è in agitazione. La moglie ènel bagno e si sta truccando, cercando nel contempo di allacciarsi al vitinosinuoso la cintura di perjlon. Il marito è all’inseguimento del calzinoblu che sembra animato di vita propria, tanto è difficile da stanaredal fondo del cassetto. Per le stanze si sente odore di gomma bruciata:Emmy, di appena cinque anni, ha messo il grande puffo di plastica nel fornoa megaonde. La mamma, di passaggio tra il guardaroba e il bagno, le infilaal volo una canottierina rosa con i fiocchetti bianchi. In salotto l’M +18, il computer vigilante collegato con Multivac che governa tutta la regione,emette un lungo sibilo. Sul monitor appare la scritta a ioni: “Oggi,18 marzo 3018, alle ore 12 in piazza UTZ soppressione pubblica dell’ultimorobot esistente”. Tutta la famiglia si sta recando alla cerimonia.Una volta pronti, salgono sull’antiquata Janga Bombo, che si solleva scoppiettandoa un palmo da terra e si infila in una corrente ascensionale piena all’inverosimiledi veicoli. Posteggiano al trentottesimo piano sotto terra e raggiungonopiazza UTZ già stracolma di cittadini. Ci sono proprio tutti. L’ultimorobot è al centro della piazza lastricata di quarzo. Mamma e papàtengono Emmy stretta a loro, tradendo una certa emozione. Una volta, i roboterano diffusissimi. Obbedienti, svolgevano ogni tipo di lavoro, giravanoper casa servizievoli e arrendevoli. Ma con le nuove tecnologie, i robotdiventarono obsoleti, ingombranti, poco affidabili.
Insomma, inutili.C’è rimasto questo ultimo robot, che guarda conla testa reclinata sulla spalla la folla che l’osserva commossa. Ormai èvecchio e mal funzionante. Uno squillo di una Daxon elettronica, una scaricalaser di colore rosso colpisce l’ultimo robot che si sdraia sul lastricatodi quarzo.
Un’epoca è finita. Emmy, ricordando un vecchio robot suo compagnodi giochi, piange. Una lacrima di silicone le solca il bel viso di metallolevigato. Nella piazza c’è silenzio. Tutti si allontanano piano,salutando con le mani snodabili al titanio 18, l’ultimo dei robot che unavolta si chiamavano “uomini”.


Lorenzo Beccati


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Smemoranda 1997


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