Arriva sempre il momento in cui la gente mi domanda che mestiere faccio, e allora intorno a me si scatena il putiferio.
C’è chi fischia ed emette ululati di giubilo. C’è chi fa un passo indietro, di colpo, come se gli avessi dato uno spintone. Chi sprofonda nell’invidia, abbassa la testa, si intristisce in un’improvvisa commiserazione di sé. Chi stringe gli occhi e mi dà la sua bella occhiata di rimprovero. Ma la maggioranza mi fa le feste. Arrivano pacche sulle spalle, mi sorridono da un orecchio all’altro: “Raccontami tutto”, dicono, e mi offrono da bere.
    Se il mio mestiere vi mette così tanta gioia di vivere, perché non provate anche voi, almeno una volta?
Mi viene da fargli la ramanzina, a questi esaltati. Poi però l’idea di farli gongolare come non li ha mai fatti gongolare nessuno ha il sopravvento, e mi metto a raccontare.
Per lavoro io giro il mondo nudo.
Cinque anni fa ho scritto una Guida al nudismo in Europa (isole comprese), che ho ripubblicato due anni dopo in versione ampliata, con il Nord e il Centroamerica. Attualmente sto lavorando alla prima Guida al nudismo in tutto il mondo (luna compresa).
(luna compresa), scritto così fra parentesi, lo voglio mettere nel titolo. È una piccola licenza poetica che mi concederò, perché la luna è la cosa più nuda che esista, tutta sbucciata, grattata, completamente svestita di qualsiasi cosa, e guardandola hai la certezza che sia fatta della stessa pasta sia in superficie che nelle viscere. La luna è fatta di sasso dentro e fuori, senza organi, o lava, o radici, o cuore: è la nudista perfetta. È perfetta ma non per questo smette di essere vera, infatti non la puoi vedere mai tutta, perché ti mostra sempre solo un lato. Bisognerebbe avere uno sguardo a forma di abbraccio che la circondasse per intero, ma come si fa, con queste occhiate filiformi e due palline incastonate nella testa, i nostri occhietti lunari che mostrano sempre lo stesso lato.
Quando descrivo la nudità della luna la gente comincia a spazientirsi, vogliono qualcosa di più sostanzioso, ma io so che posso indugiare ancora un po’, perché li tengo in pugno.
Certe volte mi sale di nuovo il rigurgito, e mi viene da dire: va bene, racconto tutto purché ci mettiamo nudi anche noi, mi sembra di fare una cosa sporca a parlare di gente svestita, restando così tutto foderato di stoffa.
Ma fraintenderebbero, e allora vado avanti a raccontare.
Mi piaceva fare la copia dal vero delle mie compagne di classe, delle colleghe. Delle fidanzate no, non mi attirava. Riempivo fogli su fogli, da sinistra a destra, dall’alto in basso. Quando scoprivano che il mio non era un album, ma un quaderno a righe, e i miei non erano disegni, ma pagine e pagine di scrittura fitta, di scatto si coprivano con il lenzuolo. Si rimettevano l’accappatoio, indignate. Mi davano del porco, del depravato.
Io questa reazione la posso anche capire, ma non la condivido.
Non è perché non sapessi disegnare che le descrivevo. Anche se avessi saputo fare il ritrattista figurativo, ugualmente avrei copiato a parole le mie modelle nude. Bisogna essere assolutamente concentrati, facendo copia dal vero con le parole, non è concesso pensare ad altro. Per esempio, non succede mai che la mano a un certo punto inserisca il pilota automatico, si lasci andare un po’ svagata e tracci alcune linee da sola: prima o poi capita sempre, durante un disegno. Quando si copia dal vero con le parole, lo sguardo è più intenso, e la mente si sforza di trovare termini che vanno bene per quel corpo e per quello solo. Se è il caso ne inventa di nuovi, adatti a quella carnagione e a quella soltanto.
Comunque, in Costa Azzurra le donne mettono gli assorbenti interni durante il ciclo. Non come nel resto del mondo, dove è buona norma concedere alle donne mestruate di girare per il campo in mutande, con il pannolino negli slip. In Costa Azzurra il filo che pende fra le cosce, attaccato all’assorbente interno, è decorato di piume, di solito verdi fluorescenti o fucsia. L’anno scorso andava di moda una sonagliera, fatta di piccole sfere cave di rame con i sassolini dentro. Ogni volta che sento un campanellino, da allora penso automaticamente al sangue mestruale. Ma ho visto anche catenelle inguinali alle quali viene appeso un piccolo crocefisso.
Il mio lavoro di schedatura consiste nel fornire i dati essenziali su ogni campo nudisti. Servizi, tariffe, sorveglianza, se affittano le pinne e la maschera, assistenza medica, se si può fare la spesa nudi e le cassiere sono vestite oppure la loro uniforme è fatta rigorosamente di aria, periodo d’apertura, se si può portare in giro il cane senza museruola, numero di posti, se lungo i viottoli sterrati può capitare di imbattersi in un gregge di pecore dal vello fitto e vaporoso, temperatura media e clima, se sci e snowboard sono a disposizione della clientela, generi di ballo praticati nelle discoteche, se è vietato fare fotografie.  
A Sidney, in Ombudsman Square, c’è una terrazza sul tetto di un palazzo, al quinto piano. I nudisti possono prendere il sole e fare il bagno sulla piscina della terrazza, ma molti di loro amano passare il tempo appoggiati alle grate del parapetto. Guardano la gente che bighellona fra le bancarelle del mercato, vestita di tutto punto, assorta nella contemplazione delle merci.
A Kohtla-Järve, in Estonia, ho assistito a un funerale nudista.
Lo sceicco Hirun El Kalifa, in Qatar, ha coltivato un giardino che riproduce il paradiso del suo credo. In un condotto aperto scorre una specie di orzata lattiginosa. Dappertutto sono accovacciate donne completamente nude, tranne il velo bianco sul volto. Si appartano dietro ciuffi di palme insieme a uomini baffuti, vestiti di sandali ai piedi e nient’altro. Lo sceicco accoglie nel suo paradiso in terra qualche ospite occidentale, lo accompagna lungo il giardino in silenzio. Evita il proselitismo delle chiacchiere, lascia che sia la gloria metafisica del suo credo a parlare per lui.
Una volta l’anno, intorno al solstizio d’estate, gli esquimesi della comunità Naphpranadikku, si ritrovano sotto una grande volta di ghiaccio. Un centinaio di uomini, donne e bambini passano una settimana intera a purificare i loro corpi tagliandosi a vicenda le unghie dei piedi, si frugano l’un l’altro quasi maniacalmente fra i capelli e la rada peluria inguinale per districare anche il più piccolo nodo, schiacciano la pancia del vicino con le palme delle mani per aiutarlo ad evacuare sgombrando per bene le viscere. Eseguono massaggi ponderali, che consistono nel pressarsi nudi contro il terreno ghiacciato schiena contro schiena, a turno. A volte si ammonticchiano in pile di quattro o cinque persone, con un bambino in cima. Ho provato a sottopormi a uno di questi massaggi: non fa male, la prima impressione è che ogni singolo osso dello scheletro, dal femore sino agli ossicini dell’orecchio, si sloghi impercettibilmente, mentre in realtà stanno tornando tutti alla loro sede amniotica: per molte settimane tutto il corpo rimane come anestetizzato, si ha la sensazione di essere stati appena scolpiti. Alla fine della settimana l’aria è viziata, c’è un odore molto sgradevole, gli abitanti si rivestono, escono all’aperto e abbattono la loro architettura di ghiaccio con piccoli tocchi sapienti su alcuni punti alla base della volta, ne provocano il crollo per demolire l’atmosfera impura che essa racchiude.
Un caso di nudismo al contrario si verifica sulle coste del Benin. A Fahtra la popolazione vive per tutto l’anno senza niente addosso, ma gli anziani del villaggio, ogni undici giorni, attendono il sorgere del sole in paramenti sacri: pantaloni e camicia di lino, con un cappello di paglia in testa.
Il mio preferito è il campo nudisti di Miyazaki, nell’isola giapponese di Kyushu. Le ragazze non guardano dall’altra parte quando i ragazzi hanno un’erezione, ma si mettono a ridere allegramente, e tutti insieme pronunciano una breve filastrocca che significa: “Com’è, come non è, / sono più vicino a te”.


Tiziano Scarpa


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Smemoranda 2002


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