Quanto tempo è passato? Nulla di metafisico. Mi chiedo in che giorno la memoria di Smemoranda avrà situato nel futuro (breve) questa parole scritte “mie” (?).
Quanto tempo è passato da quelle elezioni (27 e 28 marzo, vero?) che sembravano dover marcare catastrofi e rinnovamenti. I toni erano drammatici. L’Italia rischiava di diventare l’unico paese al mondo (retto da un tycoon televisivo).
La sinistra, arrivata a un passo dalla possibilità di governare, temeva di essere ricacciata indietro. Entrambi gli schieramenti puntavano sulla pura e semplice contrapposizione, gonfiando e demonizzando l’avversario, assottigliando fin quasi a nulla il proprio programma.
Non una parola di retorica viva (per dire: alla Berlinguer; non per dire: è dalla sua morte che non si sentono parole del genere in bocca a un politico italiano, l’ultima è stata la tetra “governabilità” craxiana; guarda caso, schieramenti a parte, la parola brandita da tutti, l’orizzonte comune, il sogno dominante…)
E altro che tramonto dell’ideologia! Le prime elezioni integralmente ideologico/culturali. Due fantasmi che temono di dissolversi, confrontati con l’ipotesi di un altrui potere forte.
Il discorso; culturale della sinistra, da sempre abituato a fornire i modelli dominanti, quelli potabili e commerciabili al Mercato delle idee. E l’impero berlusconiano di onde e mattoni, produttore solo di consenso auditel e di proiezioni trionfali (il Milan… ).
In mezzo, l’unico atteggiamento realistico è apparso quello di Federico Fellini, col suo lungo coma sul finire del 1993. Non era infatti un momento in cui il cuore potesse parlare alla mente, in cui la mente potesse interferire col cuore, guardarlo, illudersi di controllarlo o correggerlo.
Non poteva esserci quel contrasto, quella sana scissione. Né lotta, né gioco, né commedia, né dramma. Nostalgia di quelle belle dicotomie, di quei tormenti che ti facevano invocare l’intervento di una ghiandola pineale.
Mancanza dell’unico sentimento che ti può dare un istante la quiete del vivere: quando avverti di essere – tu- almeno due macchine in una, non quella lì e solo quella. Una dissolvenza e non un’inquadratura fissa.
Due macchine finte, anch’esse . L’esistenza stessa e lo spazio degli organi in questione ci appaiono fittizi. Il cuore, questointerno assoluto che protegge i sentimenti è in effetti una macchina operaia, una pompa indispensabile, un’ossessione che ci è cucita dentro e che per fortuna non riusciamo a udire (pena la follia, come racconta Edgar Allan Poe).
La mente, situata per convenzione in quell’appendice fatale, la testa, in quell’organo di aspetto vagamente intestinale, il cervello, è tagliabile via con un colpo di spada. Entrambi gli organi sostituibili: uno già oggi con i cuori artificiali, l’altro come orizzonte di tutto il lavoro pratico sull’immaginario che possiamo sintetizzare con l’espressione “realtà virtuale” (ricerche sui computer biologici più immagine sintetica più bioingegneria).
E già diffusi in tutto il corpo, fino alle unghie, e fuori, nella nuvola telepatica che ci lega e avvolge. Mutazione che può farci paura, e pure può mutarci solo e di nuovo in noi stessi, che già oggi (ci) sembriamo il prodotto di una mutazione che ci ha manipolato a nostra insaputa. Cuore e mente. Già gli arti se ne vanno per conto loro, e in questo momento pollice e indice destri mi tormentano il labbro e io non ne so nulla, me ne accorgo solo quando le cerco (le dita) per prendere un foglietto che mi sfugge.
Ogni arto, ogni pezzetto di corpo ci appare un organo a sé, incontrollabile, una mano di Orlac pronta in ogni momento a scrivere per noi stessi un mane tekel phares. E nella malattia abbiamo la percezione più netta e oscura di quel che è evidente già in un semplice foruncolo. Tutto di noi ci può apparire estraneo, come fossimo il puro sintomo di una vita che ovviamente non ci appartiene.
Allora vorremmo essere un corpo senza organi, un vuoto. Il vuoto di cui abbiamo anche fisicamente bisogno. Penso ai polmoni, al respiro che misteriosamente ci irrora d’ossigeno, ci fa inspirare il mondo stravolgendo il rapporto interno/esterno.
Come ci mancava, il respiro in quella fine di marzo del millenovecentonovantaquattro. Primavera senza aria. V(u)oto mancante. Tutti lì a discutere di tasse. Saremo sopravvissuti, oggi (non so il giorno ripeto), a quell’asfissia, all’apnea prolungata? O l’irrorazione interrotta avrà già spento il cuore e la mente?
Oggi, in quell’oggi passato che è lì/qui nella nostra smemoria, proviamo a inseguire le parole, il sentimento cui da piccoli avremmo voluto appoggiare la mano come a un osso. O la sentimente che riconcilii le due funzioni/finzioni. Ciao dal mio ventun marzo novequattro, appassionato lettore così deluso o illuso dalla vita da soffermarti su queste parole. Forse tu sarai già nel 1995 (lo sei sicuramente se non stai usando un’agenda scolastica “18mesi”).
Cento anni di cinema, figuriamoci, ininterrotto il mondo si riproduceva e si sfogliava in pellicola istante per istante. Senza cuore né mente. Solo memoria, vita depositata in memoria. Come avvertiamo la nostra nei momenti più alti e più bassi, fuori da corpocuoremente, e sappiamo (di) non essere la nostra memoria. Versata da fuori, la troviamo per caso quando si scrosta un muro e appare, credevamo di trovare una cosa nuova e ci sembra invece di spolverare un ricordo sublime, come se nel frammento di un attimo fossimo tornati a uno stato primordiale di particella subatomica che è in due luoghi contemporaneamente, fuori dalla costruzione di forme e organi, dentro la pellicola e insieme in un punto che si/la guarda.
Ciao, amore nonnulla. Se ci sei ancora scusa il mio amore assente che crede troppo alla telepatia di un’inavvertita rete cuore polmoni piedi aria occhi voce mente.
Perdona questa lettera vuota ritardata e demente (ma anche decuore).