Norberto Diotallevi

di Enrico Brizzi su 12 mesi - Smemoranda 2005





Norberto Diotallevi, il figlio del segretario comunale, si era fatto largo da subito come lo studente più brillante della classe e il cocco della maestra.
Scriveva pensierini articolati, ricchi di avverbi che gli valevano sempre il voto di ‘bravissimo’. Recitava in maniera convincente le poesie mandate a memoria, non sbagliava una moltiplicazione e, nel tempo libero, caso unico fra i bambini del paese di Focomorto, coltivava l’hobby della lettura.
In terza elementare Norberto conosceva le capitali di tutti i paesi del mondo, comprese le minuscole isole del Pacifico che avevano ottenuto l’indipendenza solo di recente; su una vecchia agenda, che conservava sotto il materasso, annotava piani cifrati per una insurrezione da far esplodere nel giro di pochi anni.
La maestra spesso lo additava come esempio ai compagni, e presto Norberto si convinse che mai, da quando l’istruzione obbligatoria aveva cominciato a esercitare la sua influenza sulla regione, l’edificio in mattoni pieni delle scuole elementari di Focomorto aveva potuto ospitare un allievo di genio pari al suo.
Benché, sulla base di confuse letture, si autodefinisse anarchico, vegàno e non-interventista, Norberto soffriva quando la maestra premiava con il voto di ‘bravissimo’ anche i pensierini di altri compagni di classe. In fondo, però, finiva sempre per perdonarla: la maestra sapeva perfettamente che lui avrebbe meritato un voto ancora più alto. Solo che un voto più alto, e di questo sì c’era da soffrire, purtroppo non esisteva.
Durante la ricreazione, lasciato libero nel po’ di verde che circondava l’edificio, Norberto non prendeva parte alle battaglie calcistiche, né giocava a far correre le matchbox lungo la sommità del muretto che i compagni eleggevano a pista in miniatura.
Pensava che fare amicizia con gli altri ragazzini di Focomorto fosse un’attività melensa e una perdita di tempo.
Considerava perdite di tempo anche le corse in bicicletta lungo la strada dell’argine, le battaglie con le fionde sul terreno umido delle pioppete golenali, e in modo particolare diffidava di quanti, fra i compagni, spendevano i pomeriggi incollati alle manopole del calcio balilla, dentro le mura fumose del Bar dei Vecchi.
Se appena appena provavi a interrogarle, quelle manopole, ci mettevano un niente a rivelarti quale era il destino dei ragazzini di Focomorto: schiamazzare fra juniores al Bar dei Vecchi finché un motorino, anche un cimatti di seconda mano, non avrebbe conferito loro un prestigio sufficiente per passare al Bar dei Giovani.
Lui, invece, aveva in mente piani diversi. Una volta compiuti i dodici o i tredici anni, avrebbe abbandonato per sempre quel paese di case basse dimenticato in mezzo alla pianura. Avrebbe detto addio alla piazza e al campanile, all’edificio in mattoni pieni della scuola e alla stessa casa in cui viveva, gli occhi delle finestre perennemente orbati dalla griglia fitta di zanzariere avvolgibili.
Sarebbe partito, a piedi e senza lasciare biglietti di rivendicazione, verso la stazione di Borgo, e da lì in città a cercare fortuna.
Non c’era futuro, a Focomorto.
Suo padre lo ripeteva quasi tutte le sere, rientrando dalla palazzina prefabbricata che ospitava gli uffici del comune.
Lo sapeva Norberto, lo sapeva suo padre e non facevano che ripeterlo persino i punk diciottenni che le sere d’estate, in piazza, stazionavano in chiassoso capannello davanti al Bar dei Giovani. “Letàme a mezza gamba”, gridavano a mo’ d’interiezione, giocando senza costrutto a spintonarsi. “In questo paese di pellagrosi” gridavano come un cupo ritornello “per i ragazzi un filo creativi non c’è futuro”.
Sarebbero rimasti un pezzo da quelle parti, a spintonarsi e gridare “Letàme a mezza gamba” e, più avanti, per brindare alle buone occasioni, parlare di automobili e scommettere sui cavalli.
Ci sarebbero rimasti – Norberto credeva di poterlo dire con esattezza – fino all’età in cui si cominciano ad apprezzare il biliardo senza stecca e la modulazione di frequenza di Radio Bolero. A quel punto sarebbero tornati al Bar dei Vecchi, come cominciava a fare suo padre con la scusa del torneo di boccette.
Triste e umida di rassegnazione, gli appariva la sorte di quanti sarebbero rimasti a marcire ai piedi del campanile.
Lui, invece, quando vedeva il campanile poteva anche sorridere. Che svettasse quanto gli pareva. C’era qualcuno che un mattino di primavera, un piccolo zaino in spalla, avrebbe imboccato la provinciale in direzione Sud per andare a cercare fortuna in città.
Tutti i grandi uomini, prima o poi, si erano dovuti adattare a cercare fortuna. Come facchino o, al peggio, come fachiro.
Oh sì. Qualcuno sarebbe partito, e peccato per quanti erano condannati a restare in paese. Già se li vedeva, impegnatissimi a scandire ore identiche una all’altra mentre proiettavano la stupida ombra di sempre attraverso la piazza.
Secondo la carta stradale in scala 1:200.000 che suo padre conservava da sempre nel portariviste del tinello, il paese distava esattamente sedici chilometri dalla stazione di Borgo.
‘Certo, coprire sedici chilometri a piedi’ considerava Norberto compiaciuto e sconvolto dall’enormità del proprio piano, ‘non sarà mica facile. Non è semplice come strillare Letàme a mezza gamb’’.
Quel ritornello ascoltato mille volte in piazza lo metteva di buon umore e gli faceva avvertire, in sterminato anticipo sul giorno della partenza, il morso della nostalgia.
In ogni caso, camminando lungo il ciglio della provinciale, in un paio di giorni ce l’avrebbe fatta di sicuro.
Una volta raggiunta la stazione di Borgo, il più era fatto.
Non serviva essere adulti con la barba, per comprare un biglietto e salire sull’espresso che conduceva in città.


Enrico Brizzi


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