All’inizio non c’era Nord e non c’era Sud.
Non avevi idea delle differenze fra un paese e una metropoli, non sapevi da dove arrivassero le voci dei cantanti che uscivano dallo stereo di tuo padre e, per dirla tutta, quell’ignoranza non ti dava nessuna pena.
Dal tuo punto di vista, era tutto sotto controllo. Il sole sorgeva ogni giorno, polpette e biscotti non mancavano, e la classificazione dei luoghi era già in atto in maniera quasi scientifica: tanto per cominciare, ne esistevano di tre specie.
Innanzitutto c’era casa, il posto in cui rifugiarsi e dal quale far partire le prime, caute, esplorazioni per mano a mamma.
La seconda categoria era costituita dalle abitazioni di parenti e amici di famiglia, i negozi che si frequentavano quasi ogni giorno, e un altro po’ di luoghi sicuri, come i giardini di Porta Saragozza, dove erano in funzione fino al tramonto due cavalcature a gettone: un papero (chiunque fosse, non era verniciato come il vero Donald Duck), e l’asinello Cleto.
Ricorderete: un adulto infilava cento lire nella feritoia, e la cavalcatura, in groppa alla quale eri stato precedentemente issato, cominciava a caracollare sul posto in un sordo brontolio d’ingranaggi che saliva dalla pedana.
La galoppata virtuale a bordo di Cleto, o dell’anatroide che insensatamente gli zii ti giuravano essere Paperino (“Sééé, colla berretta a pon-pon! E rossa, poi!”), durava cinque minuti, forse meno, ma per la nota legge della dilatazione del tempo nell’infanzia, a te sembrava brevissima e lunga ore, sufficiente per immaginare il futuro in cui, da solo, ti saresti spinto senza timore attraverso la terza, residuale, categoria di luoghi: l’Altrove.
L’Altrove era qualcosa che ti turbava. Ce n’era ovunque, affascinante e minaccioso.
Abbracciarne il concetto, portava con sé domande epocali.
Quanto si estendeva l’abitato?
Forse il mondo era un’unica conurbazione interamente coperta di case gialle o rosse, alte quattro piani e munite di portici?
O giunti a un certo punto, le case finivano e iniziava una terra selvaggia, esterna alla civiltà, dove avevano le loro basi i Cattivi?
Ma se le cose stavano così, dove abitavano i simpatici protagonisti della serie Nutella e i bambini del mondo? Avrei dato il mio playmobil sceriffo, per conoscerli! Ce n’erano con la pelle nera e altri con gli occhi a mandorla: almeno un cinese col cappello a punta in fibra vegetale, e un piccolo esquimese in pelliccia. Tipi così, in via Saragozza nel 1980, li avrei notati di sicuro. All’asilo con me non ce n’erano.
Quando varcai la soglia delle scuole elementari a Casaglia, dove arrivavano con lo scuolabus bambini di tutti i quartieri, lo seppi con certezza: i miei amici mangiatori di Nutella dovevano essere rintanati al sicuro da qualche parte, molto lontani da Bologna.
Da noi, già eri strano se il tuo cognome non finiva in -i. Non ho mai sentito commenti o insulti razzisti, alle elementari, ma il fatto di avere parenti a Napoli o, tenetevi forte, in Svizzera, era già qualcosa di assolutamente esotico.
“Marocchino” o “terrone” non erano insulti in voga: “nassista” o “fasshista” andavano molto più forte.
Nelle date solenni, inquadrati sul terreno da calcio della scuola, il “campone”, porgevamo il nostro saluto ai vecchi partigiani delle Brigate Garibaldi in visita alla scuola coi fazzoletti al collo e i gagliardetti. Intonavamo per loro, che da ragazzi erano stati eroi come Capitan Harlock, però in carne ed ossa, Bella ciao o la inebriante Avanti popolo, che sugli scuolabus, al ritorno, diventava “Avanti popolo, alla riscossa, delle maestre vogliam le ossa. Delle bidelle ce ne freghiamo, e delle cinne ci innamoriamo”, dove le cinne sarebbero le ragazzine. Il massimo dell’osé, all’epoca.
Se qualcuno ci avesse raccontato che, nel giro di pochi anni, al posto di Drive in avremmo tentato di seguire (a volume molto ridotto, e prontissimi a cambiare canale) Colpo grosso e I classici dell’erotismo, saremmo morti sul posto per la troppa emozione.
Ma non meno increduli saremmo stati, se ci avessero raccontato che in altre scuole d’Italia non si cantava Bella ciao, e non si rendeva omaggio ai vecchi partigiani.
Quale maestra senza cuore avrebbe potuto trascurare di onorare l’anniversario della Liberazione, o della strage di Marzabotto, quando sul nostro Appennino avevano trucidato quasi mille persone, perlopiù anziani, donne e bambini come noi?
Sarebbe stato uno scandalo intollerabile. Erano forse amiche di Itler, queste maestre? Dei repubblichini? Delle Esce Esce?
Che mostrassero il grugno a Casaglia, se osavano!
Poi c’erano gli scout.
Il branco Candida Luna del gruppo Bologna 16 era un mondo-nel-mondo dalle tinte fantastiche.
Anche lì vigeva l’idea che, rimboccandovi le maniche e organizzati in maniera adeguata, tutte le imprese sarebbero state alla nostra altezza.
Ospiti dei frati francescani nei locali della parrocchia di San Giuseppe, a un tiro di voce da casa di mia nonna Pina, gli Akela Silvestro e Andrea hanno tirato su una schiera di bambini che oggi hanno fra i trenta e i quarant’anni, non pochi sposati con donne che all’epoca erano “coccinelle” o “guide” nelle unità femminili.
Silvestro fu il tuo primo Akela. Era un ragazzo allegro, che viveva il suo ruolo di educatore in maniera totalizzante: oltre alle riunioni e le uscite del finesettimana, aveva istituito incontri supplementari il mercoledì, ai quali ci si presentava senza divisa, unicamente per giocare insieme e, nella cattiva stagione, abbellire la vostra tana.
In primavera era capace di farvi giocare a polo con le bici al posto dei cavalli, o di portarvi a saltare con le liane a Parco Talon. Una volta costruì per voi una funicolare in grado di farvi volare seduti a due metri d’altezza fra i grandi alberi del giardino della parrocchia, un’altra volta un rudimentale ascensore di corda grazie al quale nessun castagno era troppo alto, neppure se avevi otto anni.
Per te era un idolo, e se pure gli sarebbe succeduto un ragazzo in gamba come Andrea, la notizia che vi avrebbe lasciato ti sprofondò nello sconforto.
Poi venne fuori che Silvestro si preparava a farsi frate. A te sembrava una crudeltà, che vi abbadonasse per rinchiudersi in un convento, ad ogni modo “se gli era venuta la vocazione” andava rispettato nello stesso modo in cui si rispettano i santi e i fuori di testa.
Quando vi riunì un’ultima volta nella nostra tana e fece buio per leggervi l’estrema caccia di Akela così come è raccontata nel Libro della Jungla, la maggior parte di voi singhiozzava senza rimedio.
Nei lupetti contavano cose diverse rispetto a quelle che davano prestigio nell’universo esterno: faceva la differenza se eri una zampa tenera o un veterano provvisto di seconda stella, se avevi molte specialità o solo un misero distintivo da chierichetto ti adornava la manica, e ancora se sapevi fare o no il nodo del barcaiolo, il savoia e la gassa d’amante.
La padronanza di quest’ultimo nodo, in particolare, poteva rivelarsi utilissima nel caso ci si aggirasse per le montagne con una corda nello zaino e si presentasse l’eventualità di trarre d’impiccio un ragazzino non troppo grasso scivolato in un crepaccio di modesta entità. Ardevo dal desiderio di trovarne qualcuno, ma le tue vacanze prima appenniniche – a Monzuno e Loiano – e più avanti in Alto Adige, non offrirono mai vere occasioni in questa direzione. Invano ti affacciavi su calanchi e pietraie cercando tracce d’uno sfortunato da restituire alla sua mamma: i tuoi coetanei, o erano già al rifugio a rimpinzarsi di gelato con i genitori, o costeggiavano il precipizio con passi agili nelle loro Diadora o Primigi senza darti nessuna soddisfazione.
E poi, verso sera, si tornava a casa, in via Brigate Partigiane, carichi di racconti, ricordi e rimpianti.
La Simca 1000 del pater costeggiava il portico più lungo del mondo, e superato l’arco del Meloncello cominciavi a sentirti nel tuo territorio. Superavi una dopo l’altra le vetrine e i negozi delle famiglie dei tuoi coetanei: la pizzeria (già pizzeria con locanda) Marechiaro, davanti alla quale giocavano i tuoi futuri amici Galerio e il biondo Andres; il negozio di materassi della famiglia di Thomas, e poi sulla destra si apriva una stradetta senza nome che ancor oggi va a morire contro la recinzione della curva ospiti dello stadio.
Tecnicamente sarebbe un interno della strada maestra, contrassegnato dalla targa “segue la numerazione”, ma i ragazzini del quartiere la chiamavano “Via delle Bombe”.
Ebbene, lì in via delle Bombe, a tre traverse da casa nostra, viveva e scriveva canzoni lui,Vasco, quando ancora non aveva mai riempito uno stadio, e neppure un palasport.
Al massimo c’era il fratello più grande di qualche amico che si era spinto a ballare allo Snoopy di Modena e raccontava che, a metà serata la musica si era fermata e il patron del locale aveva annunciato ai ragazzi che il deejay Vasco Rossi sarebbe sceso in mezzo a loro per presentare un paio di canzoni dal vivo. «Ma poi la musica ricomincia?» era l’allarmata domanda che aveva accolto la notizia.
Lì da voi, oltre l’arco del Meloncello, la strada maestra cambiava nome da Saragozza avenue a Porrettana high road, e nessuno avebbe definito quel reticolo di strade strette fra la collina, lo stadio e il cimitero della Certosa “una zona di pregio” come fanno oggi le agenzie immobiliari più spregiudicate.
Era tutta un’altra vita, qualcuno ricorderà, ma come allora a primavera i bambini affollano i giardini di porta Saragozza, e questo basta a farti pensare che tutto quel che è successo da allora non è capitato invano.