“Per saperne, ne so”, pensava il giovane Electro la notte prima degli esami “è solo che mi servirebbe un po’ di tempo in più perché tutto si fissi nella mia mente come qualcosa di certo”.

Smarrito nelle ansie, si bilanciava su una sedia di legno, i gomiti poggiati alla scrivania. Era una scrivania economica di legno chiaro che gli avevano regalato molti anni prima, e oramai era imbarcata al centro dal peso dei libri. Lee Scratch Perry in sottofondo cercava di rasserenare l’aria gravida d’ansie. Quel bravo fratello tentava inutilmente d’attirare l’attenzione del giovane Electro, smarrito tra pile di bignami, fastelli di appunti fotocopiati e libri di testo sottolineati secondo le tattiche mnemoniche più in voga a quell’epoca, come la memorizzazione bicolore e la tecnica del ricordo a macchia di giaguaro.

Sulle scienze naturali il giovane Electro si sentiva pronto e, come egli stesso doveva ammettere, non sarebbe potuto essere altrimenti. Non dimenticava la bagarre esplosa in classe quando s’era venuto a sapere che tra le quattro materie orali c’era scienze naturali, la cenerentola delle discipline, il bluff, l’ora più gradita dopo ginnastica e religione. Era servito un sorteggio, per decidere chi avrebbe portato scienze come materia orale, e per una volta la sorte l’aveva sfacciatamente benedetto. Senza curarsi delle invettive lanciate da chi era stato costretto a lezioni intensive di greco, il giovane Electro aveva studiato serenamente le trenta pagine d’appunti condensati in cui si trattava la rivoluzione dei pianeti attorno al sole, la deriva dei continenti e le altre baggianate che gli autori del libro di testo avevano verosimilmente copiato da qualche numero di Focus.

Il vero problema degli esami orali era la discussione di storia. Il programma era un labirinto pieno di insidie come quello di Scarab of Ra, l’adventure d’ambientazione egizia a cui il giovane Electro aveva consacrato i propri tredici anni, età in cui, condannato a trascorrere il suo tempo libero con qualcosa di vivace in mano, aveva tentato di debellare la piaga dell’onanismo carezzando il più possibile il vecchio mouse.

Il professor Nettuno Zanasi la faceva semplice, coi suoi consigli essenziali del cazzo: “Padroneggiate il linguaggio. Non subite le domande. Individuate i collegamenti”.

Individuare i collegamenti. Ovvio. Intuitivo. Banale come bere un bravo bicchiere d’acqua.
L’unico collegamento che gli era venuto in mente ripassando la versione liofilizzata del Camera-Fabietti era un immaginario ponte sospeso tra la convenzione di Olmütz del 1850 e la pace di Milano, ma aveva richiesto uno sforzo intensissimo, varie sbirciate al libro e una sorta di joint tutto ammaccato per ricuperare la calma tra gli specchi e le ceramiche del bagno. Tanto nel resto della casa, in barba alle sue sofferenze, si dormiva della grossa.

Adesso il giovane Electro non si sentiva più tanto sicuro né dei collegamenti, né dei singoli episodi, ma forse – così si diceva, senza trovare la cosa particolarmente rassicurante- era solo la stanchezza.

Troppe scene si affacciavano alla sua giovane mente, ed avevano le sembianze di quadri ad olio esposti uno dopo l’altro in un museo.
Qui si vedevano scene di massa senza un vero trait d’union: ecco davanti ai vostri occhi il proclama di Moncalieri. Più in là, dopo le toilette, si può ammirare il discorso di Stradella. All’uscita della sala con i quadri d’assalto a colpi di lanciafiamme, godetevi l’ultima grande tela che rappresenta l’occupazione delle fabbriche nei mesi dei moti rossi.

Lungo i corridoi che univano le sale immaginarie, il giovane Electro incrociava lo sguardo dei ritratti che lo fissavano austeri dalla parete, uomini in uniforme di cui oramai s’era perso lo stampo: ecco Boulanger che forse ripensa ai suoi massacri, Kornilov con i baffoni incerati, Ludendorff, nazi ante litteram, che osserva compiaciuto la sua armata mentre si dispiega dalla parti dei Laghi Masuri.
C’erano anche Moltke nonno e nipote (o erano zio e nipote, o addirittura padre e figlio? L’enciclopedia storica non si pronunciava in proposito), c’era il sorriso di Sedan sulle labbra dei filistei tedeschi… Eppoi in sede d’esame bisognava spendere almeno una parola sul revanscismo, la deportazione nella lontana Caienna, i vizi e le virtù della regina Guglielmina. E come trascurare la pace di Shimonoseki, le vicende di Port Arthur e delle isole Pescadores (quale diavolo di mare le bagnava, a quelle? Il Caspio, forse?).

Il giovane Electro stropicciò gli occhi gonfi, zittì Lee Scratch Perry e spense la lampada da tavolo. “Branda”, pensò, e senza nemmeno lavarsi i denti si allungò sul letto.
Adesso, nel buio della sua camera gli correvano incontro i Cadetti (dalla pronuncia russa delle iniziali K e D per Costituzional-Democratici) inseguiti da una torma di socialrivoluzionari armati di forconi e rivoltelle. “Ora basta”, disse il giovane Electro, “che ci ho da stare sereno” ma come busti poggiati su un nastro trasportatore da aeroporto gli vennero in visita i ministri del regno: Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, Lamarmora, Rattazzi bis, Lanza, Menabrea, Minghetti bis.

Dopo una breve pausa, in cui Electro si augurò che il supplizio fosse terminato, il nastro riprese il suo incedere, e comparvero, uno dopo l’altro, i torsi in marmo di Agostino Depretis, Cairoli, Crispi (intro), Di Rudinì, Giolitti, Crispi (reprise), Di Rudinì, Pelloux, Saracco, Zanardelli. Li seguivano da presso tre busti identici in cui il giovane Electro riconobbe i lineamenti familiari del Giolitti, e dietro a quelli venivano -con le incongrue sembianze dei quattro fratelli Ramones- Salandra, Boselli, Orlando e Nitti.

“Andate via!”, gridava Electro nel silenzio del suo cuore. “Lasciatemi dormire, che domani ci ho la maturità”, implorava, ma chi azionava il nastro non ne voleva sapere. Scorse via un ulteriore marmo di Giolitti, questa volta polveroso e sbreccato come avesse passato mille anni in cantina, poi due nani da giardino che recavano sulla base le misteriose iscrizioni ‘Bonomi’ e ‘Fuckta’ vennero ad annunciare che adesso era il turno del tronfio Zuccapelata. Quell’insigne statista che soppresse la libertà di stampa, i partiti e i sindacati per meglio mandare a morire seicentomila italiani arrivò tutto impettito a bordo d’un cavallo immobile. Era fasciato da una divisa color della morte carica di medaglie e pendagli, ma a quell’immagine si sovrappose, nella sua mente disponibile alle suggestioni, quella d’un cadavere appeso a testa in giù in una piazza di Milano.

“Fanculo, non ne posso più” sospirava nel tiepido del letto il giovane Electro, che alla fine era un ragazzo di diciott’anni e certe pressioni non era tanto abituato a sostenerle.
Lui si sentiva una sorta di Vagabondo del Dharma, alla perenne ricerca della liberazione dal male, della saggezza e di una ragazza speciale che se ne stesse con lui sotto il sole dei Giardini Margherita, a stringergli la mano nel buio d’un cinema e fare l’amore senza paranoie sotto le stelle dell’estate, semplicemente lasciandosi portare dal desiderio.

“Ohi ohi, che vita”, gemeva il giovane Electro, oramai in fase autocommiserativa da insonnia, “questo non è mica un blues, né un rock ‘n roll come dico io… Non è neanche un assolo di basso di Jaco Pastorius… La mia vita sta diventando un pezzo house troppo acido…”
Delirava, il poverino, ché si sentiva tanto stanco…

Non ne poteva più di studiare le date, né di affannarsi dietro le traduzioni dei fumetti dal francese che gli consentivano di raggranellare quelle poche centomilalire che facevano la differenza tra un ragazzo semisquattrinato e un giovane dropout costretto a fare la raccolta delle autoradio nei pubblici parcheggi. Gli pareva che la sua esistenza, anziché assumere progressivamente le tinte vive dell’eroismo o quelle piene della consapevolezza, fosse simile a un inseguimento in cui lui, Electro, era l’inseguitore, e quel che gli sfuggiva da sotto gli occhi erano le cose che fanno vivere bene i ragazzi. Riusciva a sentirsi persino infelice, quella notte prima degli esami che già l’indomani avrebbe cominciato a ricordare con tenerezza.

“In fondo qual è, la mia colpa?”, si domandò chiudendo finalmente gli occhi. In fondo gli sarebbe bastato ascoltare bluegrass, cajun e blues del Delta sdraiato al sole nei prati di villa Chigi, ma mancava ancora quella maledetta notte prima di poterlo fare, mancava la maledetta maturità, e cercando d’indovinare se qualcuno tra i commissari d’esame arrivati da lontano per tormentarlo poteva ricordare la fisionomia da cane corso del tronfio Zuccapelata, il giovane Electro sprofondò nel sonno più nero.


Enrico Brizzi


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Smemoranda 2001


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