Ancora non c’è la tivù, l’italiano in famiglia sta seduto nel salotto buono, l’orecchio incollato alla Radio Marelli di legno lucido, umanizzata dal centrino ricamato della nonna con sopra il vaso cinese o la ballerina-carillon o il pierrot di ceramica o la sfera di cristallo di piazza S. Pietro sotto la neve. L’opera lirica va ancora forte, così come “giallo sera” e la commedia in tre atti, ma il maestro Cinico Angelini e la sua orchestra di ritmi moderni, usato spesso come intervallo fra un programma e l’altro, comincia ad avere il suo seguito. Il popolo ama la canzonetta e il popolo va accontentato. Quando al signor Pier Bussetti, industriale e gestore della casa da gioco del Casinò, viene l’idea di far gareggiare delle canzoni, la RAI si prende la briga di gestire il tutto, senza immaginare minimamente di dare il via al più grosso business musicale della nostra storia: il Festival di Sanremo. Millenovecentocinquantâuno. Salone delle Feste: tavolini in sala, gente che si abbuffa ma fa finta di no. Sul palco infiorato Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano, a turno, cantano venti canzoni, dentro un enorme microfono, allargando appena le braccia al momento dell’acuto, inchinandosi umilmente agli applausi più o meno compassati dei presenti. Fra gli autori qualche nome già noto, qualcun altro che lo diventerà: Carlo Alberto Rossi, Bonagura, Trovajoli, Testoni, Panzeri, Seracini, Mascheroni, Ruccione, Donida. Nilla Pizzi, ragazzotta ben impostata d’ossa e di voce, né bella né brutta, insignificante ma rassicurante, vince cantando “Grazie dei fiori” (mi han fatto male, eppure li ho graditi). Lei è la regina della festa perché Togliani non è Frank Sinatra, le Fasano non sono le Supremes e soprattutto perché gli altri “motivi” (così si usa definirli) ve li lascio immaginare. Nel ’52 il Festival prende forma, s’ingrassa d’interpreti (a quelli dell’anno precedente si aggiungono nientepopòdimenoche Oscar Carboni e Gino Latilla) ma le canzoni sono penosamente piatte. Vince ed arriva seconda la Pizzi con “Vola Colomba” e “Papaveri e Papere”, la prima sponsorizzata dalla DC, la seconda dal PC, dove si dimostra e ribadisce che l’italiano alle urne ha sempre visto giusto. Il ’53 è l’anno della doppia orchestra: Cinico Angelini contro Armando Trovajoli, una lotta fra titani. È l’anno della doppia interpretazione: io ed i miei genitori, frementi all’ascolto, ci becchiamo per ben due volte puttanate tali da restare ancora oggi sconvolti; roba come “Campanaro”, “Vecchio Scarpone” e “Papà pacifico”. Anche se, ad onor del vero, non ci sfugge il fatto di aver avuto la fortuna di partecipare al battesimo ufficiale di artisti indimenticabili come Giorgio Consolini, Katyna Panieri e, soprattutto, Teddy Reno. Vince la meno peggio, “Viale d’autunno” del maestro D’Anzi cantata da Carla Boni e Flo Sandon’s e un’altra schiera di nuovi autori, tristemente destinati alla fama, lascia una traccia indelebile: Di Ceglie, Bixio, Rendine, Redi. Il ’54 vede l’avvento della televisione e le tre serate vengono riprese in diretta. I telespettatori accertati viaggiano sui trenta milioni e gli autori, gasatissimi, si scatenano alla conquista di un posto al sole. Inventando parole e ritmi da ergastolo, sia per quello che per il seguente (due fra i più brutti festival mai partoriti). I titoli da brivido sono: (battiam battiam le mani) “Arriva il direttore” del maestro Fucilli, un ante-fantozzi ex impiegato di banca, “Aveva un bavero” (color zafferano e la marsina color ciclamino, andava a piedi da Lodi Milano, per incontrare la bella Gigogin), “Berta filava”, “Cirillino Ci”, “E la barca tornò sola”, “Piripicchio e Piripicchia”, “Tutte le mamme”. Vince questâultima, dato che le genitrici vanno ancora forte (come dio e la patria) anche se le migliori sono “Canzone da due soldi” di Pinchi-Donida e “Con te” di Antonio De Curtis, per gli amici Totò. II ’55 è ancora peggio anche perché vince Claudio Villa che si monta la testa e che, da quell’anno in poi, diventerà una tassa costante. Alcuni titoli tanto per gradire sono: “Che fai tu luna in del”, “Ci Ciu cantava un usignol”, “Incantateli”, “Zucchero e pepe”. Alcuni interpreti tanto per sorridere sono: Tullio Pane, Narciso Parigi, Giacomo Rondinella, Bruno Pallesi, II Trio Aurora, i Radio Boys e (mi voglio rovinare) Bruno Rosettani, Marisa Colomber, Antonio Basurto, Giara Jaione, Gianni Ravera (se il nome vi dice qualcosa è proprio lui: il futuro patron). Arriva prima “Buongiorno tristezza” della quale basta ricordare il verso, uno solo per rendere l’idea: “piangono le foglie gialle tutte intorno a me, chiedono al mormorìo dei platani: dov’è?”. Mentre da noi canta l’usignol e ci si chiede ansiosi cosa fa la luna in ciel, negli Stati Uniti, a Bill Haley basta contare le ore per far scoppiare l’unica vera rivoluzione musicale del secolo: il rock’n roll. La macchina sanremese, neppure lontanamente sfiorata dalla cosa, continua imperterrita a muoversi su una diritta, pallosissima, esasperante strada grigia. Il ’56 va dimenticato per le presenze dei vari: Ugo Molinari, Toninaa Torrielli, Gianni Mazzocchi, Luciana Gonzales; va esaltato per la defezione di tutti i big; va ricordato solo, per Mimmo Modugno che, usando un semplice giro di “do”, scrive “Musetto”, arriva in finale, non vince, ma almeno porta una vera boccata d’aria fresca. Anche se sembra impossibile, nel ’57 si peggiora. Arivince Claudio Villa, stavolta assieme a Nunzio Gallo (uno con le adenoidi in gola) con “Corde della mia chitarra”. Il reuccio fa l’en plein perché si piazza pure al secondo posto con “Usignolo” (uccello di gran moda al tempo). Pur avendo appena tredici anni, mi rendo conto che se la canzone italiana è questa, nel futuro sarò costretto ad ascoltare solo musica classica. Invece, inaspettatamente, l’anno dopo, devo in parte ricredermi perché Modugno canta e vince con “Nel blu dipinto di blù” che, pur non volendo significare una minchia, tira alla pelle d’oca. Le altre canzoni in concorso persistono sulle stesse melodie, sugli stessi temi, usando gli stessi ignobili testi e giustamente vengono punite. Il ’58 è l’unico anno, in tutta la storia del Festival di Sanremo, che, fa giustizia. Giustizia delle varie “Fragole e cappellini”, “L’Edera”, “Campana di S. Lucia”, “I trulli di Alberobello”; fa polpette dei vari Gino Latilla, Claudio Villa, Nilla Pizzi, Giorgio Consolini, Aurelio Fierro; sbatte in faccia la propria ottusa inventiva ai vari. Cherubini, Concino, Seracini, Panzeri, Ruccione, Pallesi e Malgoni che avevano proprio rotto i coglioni (tanto per fare rima). La qual cosa l’anno appresso, per un pelo non sortisce l’effetto contrario se è vero che tal Adriano Celentano, mostrando il culo al pubblico, orrore, e cantando un rock ‘n roll, “24.000 baci” anche se in ritardo di cinque anni rispetto alla media internazionale, arriva al secondo posto, dietro solo alla straclassica “Al di là”. E la svolta ha un seguito l’anno dopo anche se in tono minore, perché Modugno fa il bis con “Piove”, lontana anni-luce da “Volare”: è il personaggio, più che la canzone, a riconfermarsi, a dispetto del compatto esercito di tromboni. Qualcosa si muove, se oltre a Modugno si fanno strada Betty Curtis, Wilma De Angelis e Johnny Dorelli. Niente di eccezionale, per lâamordidio, ma insomma, meglio di un calcio nelle palle. Ma lo strisciante subdolo potere, legato alla tradizione, non può sopportare l’onta a lungo e l’anno dopo organizza un “blitz” per rimettere le cose in ordine. Sceglie una coppia che può accontentare tutti: Renato Rascel (amatissimo da un pubblico dai trentenni i sù) e Toni Dallara (urlatore, ma neanche tanto, ad i “gioventù moderna”). “Romantica”, per chiarire come stanno le cose, vince, battendo sul filo di lana Migliacci e Modugno che, effettivamente, aveva esagerato proponendo “Libero” e che così la prossima volta imparano. Le acque, comunque, si sono mosse di brutto, tanto che in quelle storiche tre serate si affacciano una Mina prorompente e un Joe Sentieri saltellante. Il potere (di cui sopra) sembra non preoccuparsene, lascia fare, “sono ragazzi”; fa parte del gioco mantenere qualche valvola di sfogo, altrimenti il popolo (che non è così pirla) parlerebbe di repressione e poi, essendo il momento in odore di boom economico, meglio fare i liberali che i bacchettoni. L’inaspettata vincitrice, scritta da Donida e Mogol (tel chi el cobra de legn) e interpretata da Betty Curtis e Luciano Tajoli (sigh) salva in corner la rispettabilità della tradizione che aveva puntato tutto su “Il mare nel cassetto” di una periferica, sguaiata, giovane Milva e di un Gino Latilla scoppiato. Ma Celentano è la punta del classico iceberg. Volti e nomi nuovi conquistano quella parte di pubblico che ha voglia di cambiare musica. Si va da Bruno Martino (sofisticato e preparatissimo professionista) a Giorgio Gaber, da Pino Donaggio (la sua “Come sinfonia” è certamente il pezzo più bello del Festival) a Jimmy Fontana, da Jenny Luna (in coppia con Mina canta la stupida ma dissacrante “Le mille bolle blu”) a Umberto Bindi, da Gianni Meccia a Gino Paoli, tutta gente che, capito l’andazzo, non si ripresenta per l’edizione ’62 sulla quale è opportuno stendere un velo pietoso, anche perché l’unica novità è il volpino ridens Tony Renis, che dio lo benedica. Il quale, nel generale disastro dell’anno seguente, vince con “Uno per tutte”, un semi-plagio di pari peso e statura ari al di lui autore e interprete. Nel ’64 gli organizzatori vengono colti da manìa di grandezza e, pensando sia giunto il momento di trasformare Sanremo in uno spettacelo internazionale, cominciano ad invitare i cosiddetti stranieri. Essi, ignari del fatto che il festival è uno scassato carrozzone, ci cascano ed accorrono a frotte. Vengono così definitivamente stroncate le già precarie carriere di Frankie Laine, Bobby Rydell, Paul Anka, Frankie Avalon, April Stevens e Nino Tempo: tutta gente che in patria aveva toccato i vertici del più straordinario successo, con tanto di milioni di copie, dischi d’oro e di platino. Arriva prima suor Gigliola Cinquetti che, della semplicità e modestia, fa tale sfoggio da coinvolgere la giuria a mollare tutto quel bengodi di personaggi stranger a favore dei suoi bei dentoni sovrapposti, delle sue esili corde vocali, del suo vestito cucito in casa. È proprio il trionfo della purezza. Le altre canzoni in gara, per quella sera, passano in secondo piano, anche se a qualcuno toccheranno non poche soddisfazioni, come per “E se domani”, ripresa e portata al successo da Mina o come per “Una lacrima sul viso” di Bobby Solo che venderà ben 1.700.000 copie. Un successo, questâultimo, che servirà all’Elvis made in Italy, come biglietto da visita per vincere l’edizione Î65, con una delle più brutte canzoni mai apparse alla ribalta di Sanremo: “Se piangi, se ridi”. Le altre non sono da meno, ad eccezione di “Il tuo amore”, forse la cosa migliore scritta da Bruno Lauzi, e di “Io che non vivo (senza te)” di Donaggio che gli frutterà tanti di quei soldi, in diritti, da permettergli l’acquisto di una bellissima casa nel centro di Venezia, dove tuttâora vive e lavora. Saltiamo a pie pari il ’66 perché si porta addosso l’infamia di una vincente “Dio, come ti amo”, l’esclusione di Celentano con “II ragazzo della via Gluk” (il top del “molleggiato”) e di Lucio Dalla con “Pafff… bum” (un pezzo troppo rivoluzionario per una giuria ebete). Così come tranquillamente si può fare col ’67 dato che vince “Non pensare a me” (Claudio Villa e Iva Zanicchi) (e poi ci si domanda come mai è scoppiato il ’68), dato che si piazzano maluccio “La musica è finita” di Umberto Bindi e “Pietre” di Pieretti-Gianco cantata da quel simpaticone di Antoine, dato che soprattutto, Luigi Tenco ci lascia le penne di suo pugno e che commentare la cosa non ha nessun risvolto comico. L’anno seguente, considerati i tempi, ci si aspetta qualcosa di divertente, qualcosa che mostri un minimo di buona volontà da parte degli organizzatori. Niente da fare, benché tutti si siano accorti che un certo movimento è nell’aria (satura di gas lacrimogeni) a Sanremo tutto resta all’insegna della più assoluta piattezza. Vince il meno peggio Endrigo in coppia con Roberto Carlos (“Canzone per te”). Don Backy, da autore fa la parte da leone: giunge al secondo posto con “Canzone” e al terzo con “Casa bianca” e si monta la testa al punto che, ancora oggi, crede di essere un genio. Il resto è composto da una serie di vaccate varie, comprese quelle che strizzano l’occhio ai giovani incazzati (vedi “La tramontana”). Il ’69 potrebbe riscattarsi facendo vincere “Un’avventura” di Lucio Battisti ma, al solito, le fette di prosciutto stagionato alloggiano abbondanti nei padiglioni e auricolari dei giurati i quali, incredibilmente, decretano che “Zingara” è la meglio in gara. E così la Zanicchi, che quando entra in sala d’incisione può far morire il maestro concertatore a causa delle sue continue stonature, arriva prima per la seconda volta. Servono ulteriori commenti? No. Meglio passare avanti, al 70, quando Celentano, che nel frattempo si è iscritto alla gioventù cattolica, si scaglia contro la classe operaia per tramite di sua moglie la quale, a nome di tutte le donne, decide di non dargliela più se lui non la smette di fare sciopero. Fortunatamente “Tipitipitì”, cantata da Mario Tessuto e Orietta Berti, entra in finale, riscattando solo in parte un’edizione da dimenticare. Ma la vera débàcle di Sanremo ha inizio nel 71 perché cominciano a scarseggiare i grossi nomi e perché i nuovi sono: Sergio Menegale, Edda Ollari, i Gens, gli Aguaviva, Paolo Mengoli che, come tutti sanno, hanno lasciato una traccia indelebile nella storia della canzone italiana. Per dieci anni il Festival diventa una balera di periferia, un trampolino di lancio per disperati, un palcoscenico da ultima spiaggia, insomma: un vero disastro. Nel 1982 a forza di pubbliche relazioni, comunicati stampa, turbate da manager, sfrenati bocca a bocca, riescono in qualche modo a farlo rinvenire. Il grosso merito va a quelli di TV Sorrisi e Canzoni, che una settimana prima del via ufficiale pubblicano (facendo finta di essere furbi e preparati) la copertina con il vincitore Riccardo Fogli sorridente, truccato e sfolgorante in tutto il suo buro-splendore. Un altro che ci marcia è il mago Jucas Casella il quale, non essendosi reso conto che oramai mezza penisola è a conoscenza del fatto, durante la serata inaugurale, chiude in una busta il titolo della canzone vincente, la consegna tremante al presentatore assicurando il popolo che lui con quella mossa si sta giocando la carriera. Lâedizione non ha altri meriti particolari se non le giuste polemiche scoppiate all’indomani della serata finale quando, avendo davvero vinto Fogli, qualcuno si sente un attimo preso per il culo e da fuori di matto. Dulcis in fundo: il 1983. Grandi servizi giornalistici, grande fermento, pettegolezzi, “si dice”, nuovi volti nuove voci, ridda di supposizioni e pronostici, pre-gare ideate da Pippo Baudo, trasmissione speciale (si fa per dire) di Enzo Biagi (e chi se no?) sulla storia e i personaggi del Festival, risultato: una cagata micidial., E credo non sia possibile altra definizione perché hai voglia a tentare di comportarti da persona fine, a sforzarti per trovare dei sinonimi, dei giri di parole che possano rendere l’idea senza, tuttavia, lasciare dei dubbi o senza esprimere solo delle mezze verità. Una cagata micidiale è la frase che calza meglio, così, nuda e cruda, evitando di proposito una spiegazione, un perché. Una cagata micidiale e basta è tutto quello che onestamente si può e si deve dire dell’ultimo Festival di Sanremo. Pace all’anima sua.


Alberto Tonti


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Smemoranda 1984


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