Qualcuno parlava troppo forte là fuori. La finestra era aperta, per il caldo cocente della notte. Distesa sulle lenzuola rosa lei dormiva, silenziosa come la luna. Lui era sveglio. Avevano discusso in modo inconcludente sulle vacanze. Bruno non aveva ancora deciso niente. Susi, la donna che lui forse amava o che forse desiderava soltanto, voleva che facessero un viaggio insieme. Un lungo viaggio in un luogo lontano. Lontano?, aveva detto lui: tu vieni già da un posto lontano, cosa c’è di più lontano del tuo oriente? Era venuta in Europa perché non si fidava dei comunisti cinesi, nuovi padroni di Hong Kong.
La voce là fuori si stava alzando di tono, ma era una voce a cui nessuno rispondeva.
Il problema, per Bruno, in realtà non era dove andare in vacanza, ma se andarci, e se andarci con lei. Guardò Susi. Era rimasta delusa della loro discussione, ma adesso dormiva serena. Sapeva staccarsi, viaggiare sopra le cose sgradevoli. Le ultime parole, già nel dormiveglia, le aveva mormorate quasi tutte nella sua lingua misteriosa. Bruno non le capì, afferrò soltanto qualcosa come “Polinesia”.
Pensò alle cose in sospeso, agli affari da seguire. Faceva il consulente d’impresa. Molte delle operazioni più importanti del periodo, valutò, le aveva già concluse. Alcuni piani d’investimento, la chiusura di qualche azienda decotta, la delocalizzazione di altre. Poteva respirare. Poteva andarsene quando voleva. Ma anche stare in città non era male. Gli piaceva, svuotata dall’estate. Si godeva i giorni indolenti, gli affari ridotti al minimo, i pranzi leggeri e le lunghe dormite, le corse rapide con gli amici al mare per abbronzarsi e nuotare e per ballare la notte, o sulle Dolomiti ad arrampicare e stare al fresco. A spensierarsi, comunque.
Avevi detto a mezzanotte! E sono invece le due! – gridò la voce.
Già le due! – era la voce di un uomo esasperato.
Si conoscevano da poco più di un anno, Susi e Bruno. Lei faceva l’interprete e aveva lavorato con lui per certi investimenti in Asia di cui si era occupato. Si incontravano a casa dell’uno o dell’altra, quando ne avevano voglia, o in qualche locale. A volte trascorrevano insieme un week-end da qualche parte. Era una storia piacevole, leggera. Un amore forse effimero, forse promettente. Bruno non aveva voglia di scoprirlo, per ora. Pensò che avrebbero potuto andare qualche giorno in un luogo tranquillo ma non lontano. Avrebbe potuto rientrare facilmente, nel caso. A Caorle, ad esempio. Un buon posto, fuori dal caos turistico: la piazzetta, la scogliera, la chiesa col campanile romanico in riva al mare, un bell’albergo. O sulla riviera tra Cavallino e Punta Sabbioni: spiagge larghe e morbide, protette dalle dune e da pinete folte, verdissime.
Te l’avevo detto di non prendermi in giro! – l’uomo là fuori urlava al telefono. C’era una cabina, giù all’angolo. Bruno aveva parcheggiato l’auto proprio accanto. Aveva notato che la porta della cabina era rotta e perciò rimaneva aperta.
Non puoi deridere un uomo, capisci? – gridò.
Gridò di tutto, insulti, lamenti, gridò anche il proprio nome.
Lo hai sentito bene? Questo nome, lo hai sentito? Lo devi rispettare, questo nome!
Bruno trasalì. Quand’era ragazzo, l’uomo che adesso urlava al telefono era uno dei suoi amici. A Marghera, dov’erano nati e vivevano a pochi palazzoni di distanza, lo chiamavano Pelè, perché aveva la pelle più scura degli altri e per la sua abilità nel gioco del calcio. Veniva spesso bocciato, a scuola, ma non gliene fregava niente, diceva, perché il Milan lo stava per mettere sotto contratto. Lo aveva “visionato” un osservatore, una vecchia volpe del calcio, che adocchiava nuovi talenti nelle periferie. C’erano buone possibilità, gli aveva assicurato. Pelè aspettava, fiducioso. A volte ingannava l’attesa con l’alcol. Lo trovava in casa, perché il padre beveva. Una sera di giugno, dopo l’ennesima bocciatura a scuola, comparve sbronzo al festival dell’Unità. Ci restò poco, perché il servizio d’ordine lo cacciò quasi subito. Dava fastidio alla gente palleggiando con una lattina vuota, e aveva vomitato sulla pista da ballo.
Dobbiamo fare qualcosa di forte, disse. Di forte, ripetè, dopo che l’ebbero buttato fuori. Dobbiamo farlo stanotte. Domani, Pelè, domani, tentarono di convincerlo gli amici. Ma lui no. Andiamo adesso. Andiamo subito a Fusina, disse.
Punta Fusina, dove sbuca in laguna un ramo del Brenta, è oggi un bel posto ordinato. La gente, d’estate, ci va a prendere il sole. Si distende con le stuoie e gli asciugamani sullo spiazzo in mattonelle e si abbronza guardando Venezia e le isole o le navi che passano. Ma all’epoca era un luogo in rovina, pieno di ruderi, con alcuni casoni abbandonati, invasi da sterpi e da erbacce.
Quando vi giunsero – in tre o quattro, cavalcando motorini – Pelè disse di aspettarlo. Da un cumulo di rifiuti prese dei cartoni che avvolse e che accese con un fiammifero trasformandoli in una grossa torcia. Quando il fuoco divampò, Pelè raggiunse la più grande delle case abbandonate e vi entrò aprendone con un calcio il portone decrepito. Per un po’ ci fu silenzio. Da fuori si vedevano soltanto i bagliori della torcia. Poi si sentì una specie di sibilo, come un suono flebile e frusciante, e poi un’eco di lontani mugolii che sembrava venire dal fondo remoto della notte. Un fondo silenzioso che quei rumori agitavano appena ma che infine, di colpo, fu squarciato da un grido feroce, un lungoi selvaggio ululato: era la voce di Pelè, che stava uscendo di corsa dalla vecchia casa. Correva, e reggeva la torcia infuocata, avvolto da un nugolo di pipistrelli, centinaia di pipistrelli che era andato a provocare e ad aizzare e che adesso uscivano con lui dal casone abbandonato e volteggiavano ovunque nella notte, con mille occhi sbarrati e mille ali nere impazzite. Pelè superò i cespugli, cresciuti dove un tempo doveva esserci stato un’orto, attraversò la strada dov’erano appoggiati i motorini, si diresse verso l’argine della Punta, sempre con la torcia accesa in mano, inseguito da quella nube nera e vociante. Infine scagliò nel cielo la torcia e si tuffò a volo d’angelo, scomparendo nell’acqua scura sopra la quale lo stormo di pipistrelli si disperse.
‘fanculo la scuola, disse tornando a casa, e ‘fanculo anche il Milan, se non mi vuole, e poi io tengo per la Juve, lo sapete.
Lo sapevamo, si, pensò Bruno. Guardò la donna che gli dormiva accanto e che nel sonno aveva sorriso. Stava sognando il viaggio che desiderava? O semplicemente aveva il dono della tranquillità?
Giù in strada la voce di Pelè si stava rompendo.
Ascolta, disse, senti l’estate, sentila! Non credi che me la merito anch’io?
Gli sembrava di vederlo, con la mano che teneva la cornetta del telefono fuori dalla cabina, a catturare l’aria, l’umore, la voce dell’estate.
Non è colpa mia se hanno chiuso – gridò.
Troverò un altro lavoro, e ci andremo l’anno prossimo in Sicilia. La prossima estate. Non può andarmi tutto storto, sempre. Sempre!
Poi si sentì un colpo, un fragore di vetri.
Erano tornati al festival dell’Unità, da Fusina. C’era un concerto delle Orme, che a Marghera erano un mito, i primi ragazzi del posto a raggiungere il successo.
Il prossimo sarai tu, in serie A – dissero a Pelè, brindando con una birra.
Lui annuì e sorrise e quando le Orme attaccarono “Senti l’estate che torna” si mise a cantare felice, a gola spiegata.
Susi si svegliò. Pelè aveva fatto un gran casino, là fuori. Doveva esserci del sangue, e dei vetri rotti, intorno alla cabina telefonica. Bruno si stava vestendo e lei gli chiese dove andasse a quell’ora.
Continua a dormire, disse lui. Tornerò presto, devo andare a Fusina con un vecchio amico.
E per il nostro viaggio, ti piacerebbe la Sicilia?