Non volevo diventare un ubriacone. Abitavo da solo, con la piccola Francesca. La sera a tavola mi piaceva bere qualche bicchiere di vino. Alla fine della cena richiudevo la bottiglia con il tappo di sughero, o con uno di schiuma di plastica, di quelli che mettono nelle bottiglie adesso, per il vino di poco pregio che bevo io. Ma il vino perdeva il sapore, in una bottiglia ritappata. Così, invece di tappare per la terza sera di seguito la stessa bottiglia sempre più insipida, già che c’ero mi versavo un altro bicchiere, la finivo. Poi passai a svuotarla fin dalla seconda sera. Bevuta la mia mezza bottiglia, mi alzavo da tavola un po’ imbambolato e andavo di là, nella stanza della piccola Francesca. 

I risultati erano ottimi. Le favole della buonanotte che raccontavo a Francesca mi uscivano più fluide. I personaggi si lasciavano andare, trovavano il coraggio di fare cose sorprendenti. Francesca si divertiva, la vedevo addormentarsi con il sorriso sulle labbra. Mi sembrava che le continuasse da sé, le mie favole, sognandole, andando oltre il finale che le avevo raccontato io. Ma poi, col passare delle settimane, le mie storie divennero sempre più sconclusionate. Francesca sospirava ascoltandomi. Si addormentava per l’esasperazione, credo. Per la noia.

 

Dovevo darmi una calmata. Bere un po’ meno.

 

La mia forza di volontà si chiama Francesca. Ho la responsabilità di questa bambina, alla mia età. Devo tenere duro per lei. Non sono un uomo disciplinato. La mia capacità di controllarmi non è dentro di me, sta fuori. Si è personificata in Francesca. La vedo che cresce, che va a scuola, che si incuriosisce di tutto, e penso che ho il dovere di essere un uomo in gamba, che il mio compito è riuscire a prendermi cura di lei fino a quando sarà grande e ce la farà da sola. Ma quello che deve farcela, di noi due, sono io. Immagino me stesso, nel futuro, immagino come sarò, le forze che avrò, quelle che potrò ancora dedicare a lei, finché ne avrà bisogno. 

 

Me lo ripeto in testa, non posso fare a meno di pensarci.

Quando Francesca avrà diciott’anni, io ne avrò settantatre. 

Quando lei avrà ventun anni, io ne avrò settantasei. 

Quando lei avrà venticinque anni, io ne avrò ottanta.

Francesca, adesso, ha sei anni. Io ne ho sessantuno.

Ogni volta che ci penso, cerco una bottiglia nei paraggi.

 

Mi conoscevo. Non sarei stato capace di rinunciare al vino. Dovevo razionarlo. Un bicchiere, al massimo due, soltanto a cena. Evitare di andare avanti a bere fino a svuotare la bottiglia, con la scusa che ritappandola e lasciandola lì il vino avrebbe perso sapore. Ordinai in rete un set di tappi speciali, a valvola, con inclusa una pompetta per creare una specie di sottovuoto e preservare l’aroma. Sette euro e venti, più cinque euro di spedizione. Inserii i dati della mia carta di credito. Cliccai. Immediatamente mi arrivò sul telefono il messaggino di addebito bancario. Bene. Il primo passo era fatto. Festeggiai con un buon bicchiere di rosso. 

 

Una mattina mi svegliai con la testa pesante. La sera prima avevo aperto una bottiglia e l’avevo bevuta fino in fondo. Qualcuno stava suonando il campanello. Scesi a piedi fino al portone d’ingresso, laggiù mi aspettava un ragazzo che sopra la felpa aveva un gilet arancione, con due strisce catarifrangenti, pieno di tasche. All’altezza del cuore gli spuntava fuori una ricetrasmittente con l’antenna, che ogni tanto friniva mandando un segnale. Mi consegnò un pacco. Finalmente. Il mio set di tappi sottovuoto. Il primo passo verso la moderazione. Salii in casa e strappai avidamente la scatola, con bramosia, per prendere possesso dell’aiutante magico che mi avrebbe dato una mano a diminuire la mia dose serale di alcol e restare un uomo decente. Di là in camera, la piccola Francesca stava ancora dormendo. Fra poco l’avrei svegliata, avrei preparato la sua colazione e l’avrei aiutata a vestirsi per accompagnarla a scuola. La testa mi pesava, ma avrei fatto tutto come si deve. Ce la potevo fare. Non ero ancora stato fottuto da me stesso.

Aprii la scatola, afferrai la confezione che conteneva la piccola pompa cilindrica per aspirare l’aria dalle bottiglie e creare quella specie di sottovuoto che conserva le qualità del vino più a lungo, togliendo via anche la scusa per bere una bottiglia intera ogni sera. Ruppi la confezione, scartai l’involto che conteneva il cilindro di plastica. Mi ritrovai in mano un cazzo. 

Era un cazzo di gomma solida, dalla superficie morbida, stilizzato, con sporgenze smussate e un’apertura alla base, per introdurre le batterie. 

Mi sentii chiamare da una voce di bambina. Riavvolsi il cazzo di gomma nella carta, lo nascosi in alto, nel mobile pensile della cucina dove tenevo le tazze colorate per la colazione della piccola Francesca. 

 

Qualche ora dopo ricevetti una telefonata dalla ditta di spedizioni. La voce faceva pensare a una giovane donna. Pronunciò il mio nome, mi chiese se ero io.

“Devo parlarle di una cosa delicata. Ho combinato un pasticcio. Le ho fatto recapitare un pacco che era in consegna allo stesso indirizzo, ma a un altro interno. La scongiuro in ginocchio: non faccia reclamo al servizio clienti, altrimenti per me le cose si mettono male. Sono una ragazza madre, ho un bambino.”

“Ma per chi era la spedizione che hanno consegnato a me?”

“Questo non potrei dirglielo.” 

“Se non vuole che reclami…”

La voce al telefono mi disse un nome e un cognome. 

 

Cominciai a guardare con altri occhi la signora Giuseppina Desanti, la donna che abitava al piano di sopra. Cominciai anche a darmi dello stupido. Giuseppina Desanti, quanti anni potrà avere? Forse la mia età, forse qualche anno di meno. La incontravo sempre di sfuggita, sulle scale, con quel cappottino verde chiaro, le calze color torrone, indossate anche fuori stagione, i capelli che non tingeva mai. Perché ero stato così cieco? Credevo che fosse asessuata? Credevo che solo perché si ritrovava chiuso in un paio di calze color torrone, il calore smettesse di pulsare? 

Dopo che avevo messo a letto la piccola Francesca, mi sedevo in cucina davanti alla mia bottiglia di vino, vuotavo un bicchiere dopo l’altro, immaginando Giuseppina Desanti nuda sul divano, con le calze color torrone, che manovrava il set di attrezzi per tenere sottovuoto il suo desiderio. Tiravo fuori dal pensile della cucina l’involto, srotolavo la carta, appoggiavo il cazzo di gomma sul collo della bottiglia, in piedi, nella stessa posizione che avrebbe avuto se fosse stato una pompetta aspiratrice. Riuscivo a farlo stare in equilibrio, come un tappo fuori misura, una prosecuzione ingrandita del collo della bottiglia. 

 

Una sera, la favola della buonanotte mi venne particolarmente bene. Dopo che Francesca si era addormentata tutta contenta, andai in cucina a brindare con una bottiglia nuova. Mi lavai i denti, feci dei gargarismi con un collutorio alla menta, misi in bocca una caramella all’eucalipto. Indossai una camicia pulita, una cravatta, la giacca. Aprii il mobile pensile in cucina, da dietro le tazze colorate della colazione di Francesca presi l’involto, lo misi nella tasca interna della giacca, sul petto. Mi guardai allo specchio. Gli occhi erano annacquati e si vedeva un rigonfiamento all’altezza del cuore, ma tutto sommato ero presentabile.

Uscii sulle scale, salii due rampe e suonai alla porta. 

 

Giuseppina Desanti mi aprì. Aveva una vestaglia arancio chiaro, i capelli grigi. 

Mi scusai per l’ora.  “Avrei bisogno di parlarle,” le dissi. “Una cosa delicata.” Dalla bocca mi uscì un alone mentolato che mi rassicurò.

Lei aprì la porta. Entrai. Era la prima volta che vedevo la sua casa. Non notai nulla di speciale perché ero concentrato sul discorso che volevo farle. O forse perché non c’era nulla di speciale da notare. Vidi il divano sul quale l’avevo immaginata. Mi ritrovai seduto lì sopra, al posto suo, con in mano un bicchierino.

“Non so se è ancora bevibile,” disse Giuseppina Desanti, avvicinandosi con una bottiglia. “È lì da anni. Era del mio ex marito, ma io non l’ho mai più riaperta. Magari non sa più di niente.” Mi riempì il bicchiere di grappa, poi si sedette su una sedia di legno, di fronte a me.

Guardai il liquido trasparente che stavo per portare alle labbra. Mi chiesi se la signora Desanti avesse preservato l’aroma con una pompetta per ottenere il sottovuoto, ma scacciai dalla mente quell’immagine e ciò che portava con sé. Accostai alle labbra il bicchierino, aveva un odore forte. Versai la grappa dentro di me, più in fondo che potei. L’alcol mi prese alla gola. Mi schiarii la voce. “Mi dispiace di questa invasione, ma… E l’orario… Cioè, prima dovevo mettere a letto Francesca, mi tornava difficile se prima non…” Cincischiavo. Non riuscivo a cominciare.

“È una bambina molto educata,” disse la signora Desanti.

“Ecco, signora, volevo ringraziarla. Lei la tratta così bene. Francesca me lo dice sempre. Ma anche se non me lo dicesse, voglio dire, parlano i fatti. Tutte le fette di torta che le ha offerto. E i calzini che le ha regalato, quelli a righe gialle e rosa, sono i suoi preferiti, li ha sempre addosso.”

“Mi è sembrato il minimo. Deve essere difficile, per un nonno, cavarsela da solo.”

“Non sono il nonno.” Glielo dissi così. Di colpo. Senza preamboli. Guardai il bicchierino vuoto che tenevo fra le mani e ringraziai mentalmente la grappa. Era così leggero, tutto quanto.

La signora Desanti mi guardava, senza dire nulla. 

“Non sono il nonno di Francesca. Ho avuto una relazione con una donna molto più giovane di me, qualche anno fa. Io avevo cinquantacinque anni, lei venti. Quando è rimasta incinta voleva interrompere la gravidanza. Le ho chiesto di tenere il bambino e di darmelo. Le ho promesso che sarei sparito, senza mai più chiederle niente. Sono riuscito a convincerla. Non solo con le parole. Insomma, ci ho messo sopra anche dei soldi. In un certo senso ho dovuto comprare mia figlia. Ma a parte questo. Ho cambiato città. Siamo venuti ad abitare qui. Mi sono ritrovato con questa bambina da tirare su. Da solo. Alla mia età. Con le energie che si affievoliscono. È diventato il mio pensiero fisso. E adesso?, mi dico sempre. Come tirerai su Francesca? Senza una mamma, con un padre già anziano. Avere un papà che fatica a giocare con te. Che si mette ad ansare dopo il quinto gradino. Col fiato corto quando ti insegna a nuotare. O a saltare la corda. Cerco di tenermi in forma meglio che posso, ho una specie di palestra in casa, ma andare contro il tempo è un’illusione. È successo un giorno per la strada. La gente mi fermava, commentava la bellezza di Francesca in carrozzina, faceva i complimenti al nonno. Dicevano proprio così: che bella nipotina, che nonno fortunato. Non ho fatto altro che assecondarli. A Francesca ho detto che il papà e la mamma non ci sono più, che li ha persi e io sono il nonno. Penso sempre a quando diventerà grande abbastanza per dirle la verità. Non avrebbe ancora un po’ di grappa? Queste cose non le sa nessuno.” 

La signora Desanti mi versò un altro bicchierino. 

Era aspro, proprio come desideravo.

“Come mai ha pensato di confidarsi con me?”

“Lei conosce le debolezze delle persone.” 

“Che cosa glielo fa pensare.” 

“Lo sento,” dissi. 

“In che senso.”

“Adesso non sono molto in grado di spiegarmi. Però, credo che lei…” Mi accoccolai sul divano. Mi scusai ancora. “Posso togliermi le scarpe? Solo per un attimo. Mi gira un po’ la testa.”

Sprofondai nel sonno. Sognai di sposare la signora Desanti. Abitavamo nelle nostre due case. Di sera, mettevamo a letto Francesca raccontandole una favola, in due. Facevamo le voci dei personaggi dividendoci le battute dei dialoghi. Poi, dopo che Francesca si era addormentata, io e la signora Desanti salivamo su nella sua casa, zitti zitti, per le scale, senza scarpe, lei con le sue calze color torrone. Ci mettevamo seduti davanti allo schermo di un computer, a guardare tutti i siti che vendevano attrezzi per uomini e donne soli. Discutevamo su forme e misure, sul prezzo, li ordinavamo insieme per posta. “Che indirizzo mettiamo?”, le chiedevo.

Mi risvegliai. Ero disteso sul divano del salotto della signora Desanti. Una coperta di lana mi ricopriva. Non avevo le scarpe ai piedi. Ero in camicia, senza cravatta. La mia giacca era appesa ordinatamente sullo schienale della sedia di legno. Allungai una mano per vedere se l’involto nella tasca interna era ancora al suo posto, ma in quel momento entrò nella stanza la signora Desanti, insieme a un profumo inconfondibile. 

“Buongiorno,” mi disse. “Ho fatto una torta per Francesca. E un caffè per te. Lo vuoi?


Tiziano Scarpa


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