Partì per l’Argentina imbarcato sulla Conte Verde. Cinquecento per ottanta piedi, velocità diciannove nodi. Il massimo della tecnologia per le navi passeggeri di quel tempo. Per arrivare a Genova ci aveva messo due giorni. Portato a Bari su un calesse, di là in treno verso nord. Con la moglie non parlò oltre il necessario. Le leggi del bisogno coprivano il discorso per intero. Una mano sulle sue che ripiegavano le camicie da infilare nel baule. Un incrocio di sguardi mentre cenavano. Arare. Sellare. Raccogliere. Sposare. Poi salutare. Il dialetto del luogo non aveva parole per dire ti amo. Prese in braccio il figlio di sei mesi, lo cullò fino all’alba.
A Buenos Aires, per asfaltare le strade usavano i catrami residui della produzione del gas. Quel che si dice evoluzione tecnica. Nel suo gruppo c’erano un calabrese e un mapuche dalla faccia rossa. Uno cuoceva il mastice. Gli altri spandevano usando usando grossi pastelli di legno. Alla fine della giornata non sentivano più niente, neanche avessero fatto a pugni con un professionista. La fatica era insopportabile solo se ci si riposava. Così la sera andavano nelle taverne del quartiere Palermo. Vino, licor de cana. Nelle taverne c’erano le ragazze.
I soldi arrivavano coi vaglia consolari. In certi casi banconote infilate direttamente nelle lettere. Sua moglie contava i biglietti quattro volte. Si fidava di lui, non delle poste. Poi andava con la lettera del traduttore, un maestro in pensione che abitava in fondo al paese. Dallo scritto all’orale. Sembrava che il tempo fosse molto interessante in Argentina. Lunghe descrizioni di piogge sula città. Nuvole alte mentre loro lavoravano. “Non scrive altro?” ebbe il coraggio di chiedere al maestro dopo mesi che ci andava.
Qualcosa doveva essersi inceppato nella tecnologia dei vaglia, perché il denaro iniziò ad arrivare a singhiozzo. Saltò un mese. Ancora uno. Arrivarono dei soldi per Natale. Poi più niente. Ma alle altre il denaro arrivava. Allora lei capì. Telegrafare alla ditta non sarebbe servito. Bisognava aspettare. Ogni Pasqua partiva per Buenos Aires una delegazione parrocchiale. Diede istruzioni al parroco. Il parroco tornò dopo un mese.
“Dice che resta lì.”
“Non può rinnegare la famiglia.”
“Figlia mia, com’è che non capisci? La sua famiglia adesso è in Argentina.”
Pianse. Si disperò. Poi ebbe l’idea. Non alla Chiesa né al telegrafo. Non c’era niente di più avanzato e intimo di un paio d’occhi che traducono parole. Tornò dl vecchio maestro e gli dettò la lettera. Iniziava con “amore mio”. Nelle righe successive c’era scritto che lei aveva aperto un ristorante. L’esercizio era andato così bene che ne aveva aperto un altro, e un altro ancora. Adesso erano ricchi. Erano andati a stare in villa. Piscina e maggiordomo. Se fosse tornato, ogni cosa sarebbe stata sua.
Fu l’inizio della lettera a ingannarlo. Quando tornò, e non trovò niente, sentì una fitta prolungata. Adesso era due volte un traditore. La moglie e il figlio ritrovati qui in Italia, che non avrebbero dimenticato.
Io lo conobbi come un uomo colpito da improvvisi attacchi d’ira. Con suo nipote fu però sempre dolcissimo. Gli volevo bene. Quindi morì.
La storia è rimasta privata molto tempo, temo che gli anni e il realismo magico l’abbiano schifosamente colorata. Di recente ho commesso l’errore molto sano di parlarne in un’intervista. L’intervista è finita su YouTube. Così è arrivata una mail dall’Argentina. I miei parenti di laggiù ora vogliono conoscermi. Finalmente una doccia di realtà. Quando a Natale ci stringeremo la mano, sarà guardare il buio dentro un pozzo lungo un secolo.