La prima volta che sono arrivato a Los Angeles non avevo la minima idea di cosa fare nella vita, ma speravo di scoprirlo lì, per qualche genere di miracolosa illuminazione. Quando ero ottimista, mi vedevo in molti possibili ruoli, quasi tutti clamorosi. Quando ero obbiettivo, non mi sembrava di avere nessuna attitudine speciale, a parte la capacità di riconoscere con molta rapidità e accuratezza quello che non mi piaceva. I miei sogni erano sfaccettati e intermittenti, troppo poco specifici per essermi d’aiuto. Eppure L.A. era un display permanente di sogni realizzati, su varie scale: li vedevi in mostra in ogni casa con giardino in stile tirolese o messicano o neoclassico, in ogni grande automobile con vetri scuri e targa personalizzata, in ogni ristorante o bar brulicante di singoli brillanti e coppie perfette. Dormivo sul pavimento del soggiorno di una coppia di amici e facevo lavori di sopravvivenza e mi aggiravo per la grande città senza forma, mi chiedevo qual era il modo di arrivare vicino al suo cuore palpitante.
Una sera a casa di conoscenti mi hanno presentato un tipo dalla faccia butterata che si chiamava Miluteeny. Appena ha saputo che ero italiano mi ha detto che anche lui lo era, di origine. Era stato a Roma anni prima per un film, a sentir lui il periodo più bello della sua vita. Ha continuato a raccontarmi di sé in italiano, anche se lo confondeva di continuo con lo spagnolo. Mi ha detto che lavorava nel sindacato attori, visitava i set dei film per controllare che tutti gli accordi venissero rispettati. Forse era stata la sua brutta pelle a impedirgli una carriera sullo schermo, ma in compenso sembrava aver trovato molta gratificazione in questo ruolo. Veniva ricevuto da produttori e registi ogni volta che voleva: ha citato cinque o sei nomi per farmi capire quanto importanti.
Quando si è stancato di parlare di sé, mi ha chiesto cosa facevo. Gli ho detto il cameriere in un ristorante e l’insegnante in una scuola di lingue. Lui ha detto “I quale tuo sogno?”. “In che senso?” ho detto. Ero sorpreso che arrivasse così dritto alla mia ragione di essere a Los Angeles, ma a pensarci adesso non ci voleva poi tanto. Lui non mi ha risposto per qualche secondo, pensava. Poi ha detto “Deve palare co Ted Goodson”. Gli ho chiesto chi era; lui ha detto “Uno de piu grosi produtori de Hollywood. Ma e anche grande in costruzioni, teatro, sport, restauranti, import-export, transportazioni, tuto”.
Già il mattino dopo questo scambio di frasi si era perso nella sovrapposizione di frammenti concreti e astratti di cui erano fatte le mie giornate, Miluteeny archiviato tra i tanti che mi avevano dato consigli e suggerimenti inutili. Però lui non se n’è dimenticato: due sere più tardi mi ha telefonato per dire che avevo un appuntamento con Ted Goodson il pomeriggio seguente. L’ho ringraziato, ma in realtà le sue parole mi avevano precipitato in uno stato di puro panico. Mi sembrava di non essere pronto a un incontro di quel tipo, di non avere richieste od offerte abbastanza chiare da mettere avanti. La notte non sono quasi riuscito a dormire: continuavo a rigirarmi nel letto, mi vedevo seduto a un pianoforte in un teatro senza la minima idea di cosa suonare; le espressioni del pubblico passavano dall’incoraggiamento alla delusione all’irritazione aperta.
Nel pomeriggio sono uscito lo stesso di casa con una forma opaca di fiducia, come se i miei piani si potessero definire nel tempo di arrivare dalla San Fernando Valley a Beverly Hills e fare qualche giro intorno all’isolato. Avevo delle frasi in mente, continuavo a riformularle in toni e accenti diversi, ma non ce n’era una che corrispondesse a un’immagine coerente. Nella palazzina di Rodeo Drive il portiere in divisa mi ha guardato con sospetto finché al citofono non gli hanno detto di farmi salire; al primo piano una segretaria elegante mi ha fatto sedere in una sala d’attesa. Per forse venti minuti ho sfogliato riviste e mi sono guardato la punta delle scarpe, ho ascoltato il battito del mio cuore e i suoni che filtravano attraverso le pareti. Era come aspettare da un dentista di lusso, dove invece di un problema a un dente sarebbe stata affrontata e risolta la mia vita.
Alla fine la segretaria elegante è venuta a prendermi e mi ha guidato in un vasto ufficio dove un tipo dai capelli corvini era seduto dietro una scrivania, intento a una conversazione telefonica. La segretaria è sparita, il tipo mi ha fatto cenno di sedermi, senza smettere di parlare al telefono. I suoi lineamenti erano smussati, sotto l’abbronzatura da giocatore di tennis non aveva rughe né segni di espressione. Sarebbe stato molto difficile dargli un’età, anche solo in modo approssimativo; sembrava vecchio e giovane nel modo più contraddittorio. Aveva una giacca doppiopetto blu dalle spalle extralarge e un sigaro spento tra le dita; ascoltava in un atteggiamento che avrebbe potuto essere molto assorto o molto distratto. Ogni tanto diceva “Vale a dire?”, o “Più esattamente?”.
Faceva “Hmm, hmm”, mordicchiava il sigaro. Di fianco alla sua scrivania c’era un acquario tropicale in cui nuotava uno sciame di minuscoli pesci blu elettrico. Le poltrone e i divani e gli oggetti di arredamento alteravano la forza di gravità nella stanza, rallentavano la mia attenzione fino a bloccarla su dettagli secondari.
Anche Ted Goodson sembrava esercitare un influsso magnetico, benché non avesse un aspetto particolarmente imponente né suggestivo. La sua forza di attrazione era tutta nella lentezza estrema con cui si muoveva e nel gorgoglio basso della sua voce, da rana padrona dello stagno. Lo guardavo e guardavo i quadri alle pareti, le targhe e le statuette dei premi sulle mensole. Mi chiedevo se stavo per entrare a far parte dello scenario, e in che ruolo, con quali conseguenze a medio e a lungo termine. Mi chiedevo se avrei continuato a ricordare questo momento per tutta la vita, come il primo anello di una catena di eventi decisivi.
 Alla fine Ted Goodson è uscito dalla sua conversazione telefonica come uno può scivolare fuori da una piscina a sfioro: ha posato la cornetta senza salutare e ha preso un respiro, si è girato a guardarmi. La sua poltrona aveva uno schienale di cuoio trapuntato che le dava un aspetto da trono moderno, bastava il più lieve tocco dei piedi per farla inclinare avanti e indietro, farla girare. Mi sono accorto solo in quel momento che la sua giacca doppiopetto era smitizzata in modo quasi aggressivo da una cravatta con disegni di Walt Disney.
Ho cominciato a spiegargli come ero arrivato lì, anche se sapevo che avrei dovuto invece concentrarmi sul perché. Lui mi ha interrotto con un gesto, ha detto “Sì, sì, Miluteeny”, senza che il suo sguardo lasciasse trapelare niente sui suoi legami con Miluteeny. Siamo stati zitti tutti e due. Il tempo si dilatava, nel gioco di luci e pesi specifici del grande ufficio ovattato. Poi lui di colpo ha detto “E cosa vorresti fare?”, in un tono che rivelava con crudezza improvvisa la sua natura di predatore anfibio. Ho cercato delle parole, ma adesso mi sentivo davvero come uno seduto al pianoforte davanti al pubblico di un grande teatro senza nessuno spartito davanti e nessun talento per improvvisare.
Ted Goodson mi guardava, sembrava assorto eppure ormai sapevo quanto poteva essere rapido. L’acquario tropicale produceva una vibrazione leggera, le lampade diffondevano i loro aloni, i suoni del traffico fuori erano filtrati dai doppi vetri. Mi chiedevo se la sua domanda si riferiva a quello che sapevo fare o a quello che avrei voluto fare; se c’era un punto in cui le due cose potevano coincidere con uno sforzo applicato.
Cercavo di fare un inventario realistico delle mie capacità e qualità, nell’affollamento di immagini di seconda mano assorbite da libri e riviste e film e canzoni e programmi televisivi e pubblicità. Mi chiedevo cosa potevo pretendere da me stesso e dal mondo senza essere presuntuoso o irrealistico; su quali basi. Ted Goodson oscillava appena nella sua poltrona, mordicchiava il suo sigaro spento. Sembrava in grado di accogliere qualunque mia richiesta o idea, purché formulata in modo preciso: farmi diventare un cantante o un costruttore di case, un acrobata, un autista, un addestratore di elefanti. Sembrava che gli bastasse uno spunto minimo per dare avvio a un processo prodigioso di realizzazione, subito. Ma io ero lì che annaspavo tra diapositive mentali sovrapposte alla rinfusa: soggiorni a due livelli, prati all’inglese, vetrate, ragazze in costume da bagno, piscine, tavoli di ristorante, corse in automobili scoperte, bicchieri di champagne, capelli, sguardi, spiagge, onde dell’oceano. Lo sguardo di Goodson mi provocava un senso di compressione alla testa e agli occhi e ai polmoni, facevo fatica a respirare. Pensavo che avevo lasciato il mio paese e attraversato l’oceano e dormito su pavimenti e camminato per ore lungo viali infiniti dove tutti andavano in macchina e fatto lavori che non avrei mai fatto a casa mia e aspettato e osservato e immaginato per arrivare a un momento come questo, e adesso che avevo l’occasione irripetibile di essere davanti a un realizzatore di sogni non riuscivo a dirgli quali fossero i miei.
Ted Goodson mordicchiava il suo sigaro e mi guardava; sentivo voci e trilli di telefono dall’anticamera, non potevano esserci dubbi sul valore del tempo che mi stava dedicando. Eppure mi sembrava ingiusto che mi avesse fatto una domanda come quella; mi sembrava che avrebbe dovuto essere lui a indicarmi una strada praticabile tra le mille di cui potevo fantasticare. Qualunque proposta mi sarebbe andata bene, anche la più arbitraria; la mia vita era a uno stato di indefinizione totale, avrebbe potuto prendere qualunque piega. D’altra parte sapevo che a lui sarebbe bastato uno spunto: il bagliore tenue di una qualità, il tintinnio distante di un’aspirazione. Oppure avrei potuto commuoverlo con la mia totale mancanza di disegni, presentarmi come uno sprovveduto totale animato di buona volontà. Ma non ci riuscivo, e lui continuava a fissarmi: sentivo lo spazio della sua attenzione che si esauriva secondo dopo secondo. Alla fine ho detto “Non lo so”; ho anche allargato le braccia, ad amplificare il significato delle mie parole.
Mi è sembrato di avvertire un piccolo scatto nel suo atteggiamento: un arretramento così lieve da essere quasi impercettibile. Avrei voluto alzarmi subito, ma non ci sono riuscito; siamo rimasti zitti e immobili tutti e due ancora per qualche secondo. I fruscii e i ronzii della stanza occupavano il novanta per cento del mio spazio sensoriale, il resto era occupato da pensieri senza direzione. In un modo sordo sapevo che la più azzardata delle pretese sarebbe stata meglio della risposta che avevo dato; ma mi sembrava anche di essere stato onesto, e di non avere avuto alternative. Alla fine Ted Goodson ha detto “Va bene. Lascia il tuo numero di telefono alla mia segretaria. Non richiamare, ti chiamiamo noi”. Si è alzato e mi ha dato la mano. Gliel’ho stretta, piccola e molle e anche forte com’era, ho guardato la lieve piega di sorriso che gli affiorava alle labbra. Sono andato dalla segretaria e le ho dettato il mio numero di telefono, lei lo ha scritto su un’agenda in una grafia prodigiosamente fluida. Ero perplesso e legato nei movimenti; avrei voluto chiederle se potevo rientrare nella stanza di Goodson e spiegarmi meglio, ma non l’ho fatto. Invece sono uscito in strada, dove la luce era intensa e l’aria era satura di monossido di carbonio e c’erano rumori e movimenti in ogni direzione. E stranamente ho provato una sensazione di sollievo. Mi sembrava di avere affrontato il nodo principale della mia vita, quello che mi guatava dal fondo di ogni minuto di ogni giornata. Mi era costato uno sforzo estremo, ma adesso avevo il cuore più leggero, una migliore disposizione d’animo.
Nelle settimane seguenti ho aspettato una telefonata di Ted Goodson quasi ogni giorno. Appena rientravo nel piccolo appartamento dove ero ospite andavo a chiedere ai miei amici se qualcuno aveva chiamato per me.
Ho persino comprato una segreteria telefonica giapponese di plastica bianca per quando in casa non c’era nessuno, ma raccoglieva solo messaggi per i padroni di casa. Ogni tanto mi veniva in mente una frase o un’intera serie di frasi che avrei potuto dire mentre ero seduto nell’ufficio di Rodeo Drive, ma avevano sempre qualcosa di inaccurato o di velleitario, dopo due secondi già non mi convincevano più.
Poi ho cominciato a dimenticarmi di tutta la faccenda, o almeno così mi è sembrato. Nel giro di qualche anno ho scoperto cosa sapevo fare, e come farlo coincidere con quello che volevo fare. Da lì sono arrivato ad avere delle risposte dal mondo, e a costruirmi una vita grazie a queste risposte, anche se non molto strutturata. Ho seguito la strada che mi si apriva davanti man mano, senza piani dettagliati o mappe ma scegliendo di volta in volta in base all’istinto o al caso. In certi momenti mi è sembrato di avere fatto le scelte giuste, in altri di avere messo un piede dietro l’altro in modo troppo automatico, come se non ci fossero alternative quando invece ce n’erano infinite. Sono stato abbastanza contento e abbastanza scontento di me, come succede credo a chiunque faccia qualunque cosa, ma nell’insieme non direi di potermi lamentare.
Eppure ogni tanto, a intervalli variabili, mi capitano momenti in cui vorrei essere in attesa di una grande sorpresa, che dia alla mia vita un indirizzo mille volte più imprevedibile o giusto di quello che ha finito col trovare per conto suo. È lì che mi rendo conto di aspettare ancora oggi una telefonata.


Andrea De Carlo


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Smemoranda 2003


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