È un bellissimo gioco, andare al cinema. Un modo per fingere di vivere qualcosa che non esiste, che non c’è. Ed è infatti un piccolo strazio ogni volta che appare la parola “fine” (oggi più comunemente “the end”, con la gente che magari si alza soddisfatta di poter rientrare nel a realtà. È un bellissimo gioco tutto il cinema. Chi lo fa, chi lo interpreta, chi lo consuma, chi lo recensisce, tutti giocano con questo oggetto che oggi molti si ostinano a vedere in TV magari dicendo che è la stessa cosa, come se fosse uguale ammirare un quadro in un museo o portarselo a casa in cartolina. Il cinema è sempre una bella partita: tra il film e chi lo guarda. Non si sa chi vincerà. Non si sa come andrà a finire: né la storia, né come questa storia si accomoderà nella nostra testa e, nei casi migliori, anche nella nostra emozione. È un gioco la promozione del cinema, specie quella di una volta, basata sul poker delle pierre, sui nomi cubitali sui manifesti, sulle dive in lotta per la priorità al neon, sul cumulo dei pettegolezzi che sfioravano il verosimile ma erano in ogni caso consumati da un giusto pubblico, rientrando in quel cono di fantasia che il cinema sprigiona sulle cose che lo riguardano da vicino. È un gioco pensare a cosa succederà nel cinema, anche se quasi sempre è facile indovinarlo perché l’immaginazione al potere dei nostri produttori è a schiuma frenata, e il pubblico se ne è accorto da un pezzo. È un gioco condividere le sensazioni dei protagonisti di un bel film, fare tutt’uno con lo schermo, vederli uscire verso di noi per poi rientrare nello splendore dei 35 mm e del dolby stereo, come ci ha fatto vedere Woody Allen (e prima di lui, per essere sinceri, Buster Keaton). È un gioco immaginarsi che la vita sia tutta lì, fra le quattro mura di Cinemascope, o di uno schermo normale, o di un Panavision con le musiche e le battute edulcorate dalla stereofonia nostra contemporanea. È un gioco immaginare se ci piacerà oppure no; perché ce l’hanno detto gli amici, ma non si sa mai; perché la critica dice bene, ma di quello lì non mi fido mica tanto; perché ha tanto successo, ma non sarà magari un kolossal per le masse? È un gioco andare al cinema (diciamo di domenica, o di sabato sera, nei feriali, si trova posto) perché bisogna trovare l’orario dello spettacolo giusto, cercando di indovinare fra i diversi che i giornali pubblicano, e poi si sceglie sempre quello sbagliato. È un gioco immaginare se troviamo o no il posteggio davanti ai cinema, eh sì, magari, capita una volta in un anno, o nei pressi, o nel garage più vicino, o forse è meglio tornare a casa e prendere il metrò per lo spettacolo dopo. È un gioco sedersi e attendere il buio nel fruscio delle parole dei vicini o dei pop corn, con gli spot che passano fra l’attenzione paratelevisiva della platea, tra il rumore della carta stagnola delle caramelle e del cioccolato che da un fastidio tremendo fin dai titoli di testa. È un gioco fare la coda per il biglietto e sentire i commenti che si rincorrono nella fila (accadeva anche a Woody Allen in coda per l’ultimo film di Fellini in “lo e le donne”), scommettere sul resto( calcolare i tempi esatti del caffè, della sigaretta, della pipì. È un gioco sapere se si troverà il posto, o i posti vicini, o uno qui e uno là avanti, quasi di fronte, se poi per favore lei potesse scalare di uno, sì, così, va bene, grazie, mi scusi. È un gioco sapere se in quella orrenda tradizione che è l’intervallo (conservata solo in Italia e nel terzo mondo) il “vu’ cumprà” dei cornetti starà fermo davanti allo schermo chiamando a sé i bambini, o se camminerà fra le file, un quarto d’ora prima che si accendano le luci. È un gioco (lo era) vedere i bambini che girano svelti lungo il perimetro della sala, nell’intervallo, in quelle belle proiezioni pomeridiane di una volta, calde d’inverno e rinfrescate naturalmente d’estate. È un gioco indovinare il copyright della distribuzione del film: ci sarà il Leone che ruggisce della Metro, quella santa donna della Columbia, che una volta aveva quasi l’aureola, o verrà fuori quel muscoloso che batte il gong, e chi l’avrebbe detto che era un inglese? Il grande gioco del cinema è fatto di tanti piccoli giochi, una scatola a incastro, abbastanza misteriosa, fatta di sociologia e ritualità spicciola. Una cosa che forse oggi c’è poco o niente, giacché tutti vanno al cinema agli orari giusti, fanno la pipì a casa, sanno i nomi degli attori e del regista e poi parlano in continuazione durante tutto il tempo della proiezione. Ma il gioco continua. Sarà anche pellicola, sarà anche nastro, sarà un mezzo meccanico, ma è in diretta con la fantasia.


Roberto Presenti


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Smemoranda 1989


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