A volte, soprattutto quando di notte cammino insonne da una stanza all’altra, mi pare di sentire nell’orecchio un fruscio ritmato che mi segue. Credo sia colpa delle alte volte della casa medioevale in cui abitiamo… Ho provato a parlarne a Nicola che, da buon pragmatico, lo spiega con i guai della mia sordità recente; e forse ha ragione lui, dovrei farmi visitare da un medico.
Eppure l’altra notte, ascoltando quello strano fruscio, ho pensato a un potente battito d’ali e mi è tornato in mente un nome, Tiruqué, che avevo assolutamente dimenticato.
Tiruqué… Appena pronuncio questa parola, riassaporo il mio corpo di quindicenne, appena arrivata in Patagonia. Ricordo il mio sconcerto di quei giorni, quando mio nonno mi mise tra le mani un fucile dicendomi: “Qui non è come in Europa. Qui si è soli, e ci saranno occasioni in cui non potrai chiedere aiuto a nessuno. In tal caso questo aggeggio potrebbe salvarti.”
Davvero la Patagonia era un altro mondo per una quindicenne appena arrivata dall’Italia: troppo vento, troppe pietre, troppa solitudine, troppo di tutto. La testa a volte scoppiava, mi mancava l’aria se pensavo a quante migliaia di chilometri da casa ero finita. Ché mio nonno viveva in un posto isolato; i soli vicini erano, a una decina di chilometri, un villaggio mapuche abbarbicato tra le rocce e, più a nord, la villa blindata di un tedesco che aveva un passato da nascondere.
Forse per questo, perché la solitudine di quel deserto di pietre mi pesasse di meno, mi fu dato Tiruqué: era un piccolo falco della famiglia dei caracara; mio nonno l’aveva portato a casa, ferito, affidandolo poi alle mie cure. Lo nutrivo con pezzetti di carne cruda e reimparò a volare gradatamente. Un giorno dopo l’altro finì per abituarsi a me: mi riconosceva, mi saltava sulla spalla, mi faceva lunghe chiacchierate fischianti all’orecchio quando lo coccolavo carezzando le piume scure e soffici del petto. Lo ricordo nell’atto di allungare l’ala per aggiustarsi le piume con il becco, o quando, saltellandomi davanti, mi guardava prima con un occhio poi con l’altro, piegando la testa. Poco a poco si era ripreso: con le ali che stavano diventando più grandi e orlate di bianco, si abbandonava a lunghi voli, ma tornava sempre da me. Ero stata io a dargli il nome Tiruqué, per il verso che ripeteva fischiando.
Divenne il compagno delle mie passeggiate; mi faceva sentire a volte una privilegiata, come quei castellani medioevali dei libri d’avventura che tanto amavo; di quegli antichi cavalieri che giravano per le selve coi falconi appesi al braccio. Tanto più che mi avevano detto che, nella mitologia mapuche, ogni rapace era un uccello sacro, simbolo del dio del vento, a cui si facevano offerte di tabacco e di birra.
Tiruqué e il suo lento e ritmato battito d’ali, quando si alzava in volo… Quanto tempo che non ci pensavo.

Successe un pomeriggio che mi ero allontanata parecchio dalla casa di mio nonno; inoltrandomi su un sentiero appena visibile nelle pietraie. Con chiazze di neve, nei lati in ombra del pendio. Non avevo armi con me, il fucile mi dava fastidio: pesava, non mi sentivo a mio agio. Persa nei miei soliti sogni a occhi aperti, parlottando da sola con amici inventati; e naturalmente con Tiruqué che volava alto e maestoso sopra di me, in cerchi: a volte scompariva dietro il profilo di un roccione per poi ricomparire di nuovo.
   Non credo abbiate mai visto i deserti del Neuquén: terra dura e sterile, il cielo azzurro e vuoto, più vicino che in qualunque altra parte del mondo, ché sembra davvero di toccarlo. Pietraie su cui domina il vento, il cui dio viene rappresentato dagli indios del luogo con fattezze di falco. E se aveste visto Tiruqué abbassarsi su di voi sbattendo lentamente le sue grandi ali, avreste senz’altro capito il perché.
All’improvviso, in un tratto del sentiero da cui avevo perso di vista il caracara, sentii uno sparo dietro la collina. Corsi, presentendo il peggio. A una svolta, su una larga pietra nera, Tiruqué stava steso, le ali in croce. Poco più sopra un uomo: giubbotto di pelle, stivaloni neri, berretto con visiera, occhiali scuri. Sobbalzai quando, come in un film, lui mise mano alla cintura e tirò fuori una pistola di una certa grandezza.
Ricordo il tono della sua voce, dura, piuttosto rauca, accento straniero: “Ferma dove sei. Da qui non si passa. Se vieni avanti, sparo.”
Non stentai a credergli, ma per uno di quei strani misteri della mente umana non sentii neanche uno sfriso di paura. Ho in mente la scena precisa: l’uomo con la pistola, io, il caracara steso sulla roccia, ai vertici di un triangolo. Fu allora che sentii il verso – tiruqué… quasi un lamento di note debolissime – provenire dal caracara, che evidentemente non era morto. Fu un attimo: come se quell’intera vallata sperduta, le cime innevate dei vulcani delle Ande, il vento, le rocce nere e rosse, si introducessero magicamente nel triangolo per romperlo.
Naturalmente queste riflessioni non le feci allora. Appena le faccio adesso, lontana da ogni minaccia. Allora semplicemente, rispondendo a un impulso insensato, di cui non mi sarei mai creduta capace, disobbedii e avanzai verso la roccia dove l’uccello giaceva sanguinante. “Questo caracara è mio” dissi e, tremando, lo presi delicatamente tra le braccia.
L’uomo mi teneva l’arma puntata, ma non si mosse. Allora mi venne un’altra pazzesca uscita che, a pensarci adesso, mi dà i brividi. Perché alzai gli occhi verso l’uomo con la pistola e, dopo averlo guardato con disprezzo, chiesi in tono inquisitorio, come fossi la castellana medievale che, offesa, indaga su un intruso nei suoi possedimenti: “Cosa fa lei in giro, armato, da queste parti?”. Frase che adesso mi suona – e sono sicura che lo fosse – come la cosa più assurda e pericolosa che potessi dire. Però in quel momento, dall’anima, dal più nascosto cantuccio dove si nascondono le parole che potrebbero finire per perderci, mi uscì la domanda.
L’uomo rispose di essere una guardia. Un poliziotto privato. Capii subito che si trattava di uno dei guardaspalle del famoso tedesco che nessuno nella regione osava nominare. La qual cosa bastò per rinfocolare la mia rabbia.
Un uomo grande e grosso che minaccia con la pistola una ragazza di quindici anni, masticai tra i denti. Un prepotente che spara per gioco a un cararaca. Un gringo che non rispetta gli animali sacri… Vergogna. Riflessioni piene di veleno, sibilate con rabbia mentre me ne andavo con voluta lentezza, perché non volevo dare a quel tipo la soddisfazione di pensare che io avessi paura di lui. Inciampando un paio di volte nelle pietre che affioravano dalla neve, ma tenendo stretto a me il caracara gelato che respirava a fatica. Sentendo l’occhio dell’uomo fisso nelle mie spalle. Immaginando la pistola puntata.

Tiruqué morì un paio d’ore dopo, aveva perso troppo sangue. Quella sera, restai in piedi per un po’ di fronte allo specchio, nella mia stanza, come per recuperare il calore, cercando di rientrare in me stessa e riacquistare la padronanza del mio corpo, che la paura mi aveva rubato. Confesso che prima che venisse buio, presi il fucile e, in cortile, sparai come una matta contro il bersaglio che mio nonno aveva costruito perché mi esercitassi. Con una rabbia da persona ferita. Con gli occhi che mi bruciavano di lagrime.
Ricordo ancora nitidamente, come fosse faccenda di un’ora fa, i colpi del rinculo; ché subito mi sentii meglio: il calore stava tornando.
Tiruqué lo seppellimmo ai piedi di un albero di pere. “Quando a primavera spunteranno i primi germogli e il vento passerà a sfiorarli, sicuramente sentirai ancora la sua voce” disse mio nonno, per consolarmi. Ma la primavera successiva io non ero più lì.

Non riuscivo a dormire, sono uscita a camminare sotto il portico a arcate della nostra vecchia casa, appena illuminato dalla prima luce. Di nuovo ho sentito questo rumore cauto, come un fruscio ritmato. E ho pensato al battito di grandi ali di colore scuro che l’ombra del colonnato dissimulava. Ho immaginato Tiruqué che seguiva i miei passi in una sorta di fedeltà oltre la morte. Ho camminato nell’alba con la sua scorta silenziosa.


Laura Pariani


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Smemoranda 2003


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