Tre storie d’amore e di rabbia

di Tiziano Scarpa su 12 mesi - Smemoranda 2016





Un pisello enorme

Avevo un pisello enorme. A sette anni non capivo perché lo chiamavano “pisello”, addirittura “pisellino”: guardavo una di quelle palline verdi, la prendevo in mano fra due dita e la confrontavo con la proboscide rosa che mi pendeva fra le cosce. Pisello? Semmai “baccello”. Ma anche così non sarebbe bastato. “Banana”, piuttosto, anche se il mio non era storto come una banana. “Carota” sarebbe stato meglio. La mia carota però era come di gomma, si poteva ripiegare e mettere nelle mutande. Formava uno gnocco sporgente, si notava. Le mie compagne di classe, alle elementari, mi prendevano in giro: -Perché porti la merenda nei pantaloncini? -Non è la merenda-, protestavo. -Sì che è la merenda-. -No.- Sì. – No. -Sì. -E allora provate ad assaggiarla!- dicevo, facendo il gesto di aprire la cerniera. Le mie compagne scappavano via, ma prima di mettersi a correre stavano ferme per un attimo, per vedere se la aprivo davvero. All’uscita della scuola c’era sempre un signore in mezzo agli altri papà e mamme. Rimaneva per ultimo ad aspettare suo figlio, che però non usciva mai. Mi dispiaceva per lui. Forse l’aveva perso. Forse suo figlio era morto, e lui continuava a venire a scuola sperando che prima o poi tornasse. Mi faceva tanta pena. Un giorno i miei hanno avuto un contrattempo e hanno chiamato per avvertire che sarebbero arrivati un po’ tardi a prendermi. Ero solo, li aspettavo, ho pensato che potevo consolare quel signore. All’uscita della scuola sono andato verso di lui sorridendo e gli ho teso la mia piccola mano. Lui l’ha accolta nella sua mano grande. Siamo andati al parco. Mi ha chiesto se volevo un gelato. Ho detto di sì. Mi osservava tutto contento mentre lo leccavo con gusto. -Ti piace, eh?-. Poi mi ha chiesto se andava tutto bene, se per caso mi scappava la pipì. Gli ho detto che, sì, in effetti mi scappava. Mi ha accompagnato sulla riva di un laghetto. Le foglie degli alberi e i cespugli formavano una specie di stanza protetta, ma molto più bella di un gabinetto, perché i muri erano verdi e vivi, e il soffitto era il cielo. Era un signore gentile, si è accucciato per aiutarmi a togliere i pantaloncini e fare la pipì, ma appena ho abbassato le mutande ha fatto una faccia, si è rialzato di scatto ed è sparito. Non l’ho mai più rivisto. Potrei raccontare tante cose che mi sono capitate, la più strana è che tempo dopo ho compiuto diciotto anni, sono cresciuto, ma la mia carota no, è rimasta tale e quale, il mio corpo si è messo in pari, adesso sono nella media, ho un pisello normale, un uccello qualunque, un pene. Il sesso non è mai stato così grande come quando ero bambino.

Due ragazzi

Avevo due ragazzi, Marco e Roberto. Loro non lo sapevano, o forse sì. Non protestavano, perché capivano che volevo bene a tutte e due, ma non riuscivo a decidermi. Non lo facevo apposta. Non potevo rinunciare a nessuno dei due. Così non andava bene, mi rendevo conto, ce la mettevo tutta per scegliere. Marco o Roberto? Volevo dare a tutti e due la possibilità di esprimersi al massimo, così poi avrei avuto tutti gli elementi per decidere. Nessuno di loro doveva avere meno occasioni, non sarebbe stato giusto. Così facevo le stesse identiche cose prima con uno e poi con l’altro. Andavo al cinema a vedere lo stesso film due volte. Mangiavo nelle stesse pizzerie. Visitavo le stesse mostre. Andavo in vacanza negli stessi posti. Esprimevo un desiderio, e puntualmente mi arrivava lo stesso regalo due volte. Possedevo due serie di oggetti uguali. Non sempre ce la facevo a recitare: per esempio, la seconda volta che vedevo un film era difficile scoppiare a ridere per una battuta che conoscevo già, saltare sulla poltroncina per un colpo di scena risaputo, commuovermi di nuovo per lo stesso finale. Cambiavo spesso l’ordine fra Marco e Roberto, per non favorire nessuno dei due. Andavo a vedere un film con Marco, tornavo a rivederlo con Roberto. Andavo in gita con Roberto, tornavo nello stesso posto con Marco. Eccetera. Dopo due anni che stavo con loro in quel modo, avevo capito che mi piaceva tantissimo fare le cose per la prima volta con Roberto, ma mi piaceva ancora di più ripeterle con Marco. Con lui era meraviglioso rifare, rivivere, ritornare: risalire sulla stessa seggiovia, rifare shopping nello stesso negozio, reimbarcarsi sulla stessa nave, bere ancora lo stesso aperitivo nello stesso locale che mi aveva fatto scoprire Roberto. Solo Marco sapeva darmi un’emozione così forte nel riassaporare le cose, nel ritrovarle ancora lì, fedeli, ad aspettarmi. Ma perché questo succedesse, avevo bisogno di viverle una prima volta con qualcun altro, perciò non potevo rinunciare a Roberto. Non c’era niente da fare, dovevo tenermeli tutti e due. Ma un giorno Marco mi ha lasciata e due ore dopo mi ha lasciata anche Roberto.

Le bambine mi piacciono

Non capisco tutto questo entusiasmo per le donne. Io preferisco le bambine. So che molti non approvano. Mi dispiace per loro, perché ho ragione io. Le bambine sono molto, molto meglio delle donne. Posso dimostrarlo. Qual è il più grande complimento che si può fare a una donna bella? Questo: che non sa di esserlo. Che si comporta come se non sapesse di essere bella. E allora, chi più di una bambina non sa di essere bella? Ci sono anche bambine vanitose, è vero, ma è naturale, le bambine non sono delle cose, hanno un cervello anche loro e può succedere che si accorgano di essere belle. Questo succede quando si accorgono di essere guardate. In particolare dai tipi come me. A me piace guardarle, soprattutto quando escono da scuola, le posso guardare tutte, dalla prima all’ultima. Non c’è paragone con le loro mamme. Non capisco come facciano a piacere, le donne, con quelle sporgenze molli sul torace che devono essere tenute su, altrimenti penzolano sulla pancia. Le bambine non hanno bisogno di nessun tirante sul petto. E quelle facce scialbe delle donne, che si devono pitturare: un colore per le palpebre, un altro per le ciglia, un altro per le guance. Per non parlare delle labbra. Se non le colorano, le facce delle donne sono insignificanti, basta vedere che figura fanno le attrici quando i fotografi le sorprendono a fare la spesa struccate. Le bambine non hanno bisogno di impiastricciarsi, sono bellissime così, al naturale. Come camminano, come si muovono, come parlano. Non mi basta guardarle, mi viene voglia di coprire la loro faccia di baci, vorrei che anche loro coprissero la mia faccia di baci. Glielo voglio chiedere a tutte se ci scambiamo tantissimi baci, ne approfitto di chiederglielo domani che compio nove anni.

Odore di fritto

Lavoravo in rosticceria. Servivo i clienti al banco. Per tutto il giorno gli davo polpette di carne, mozzarelle in carrozza, arancini di riso, crocchette di patate, alette di pollo, frittatine di pasta, polpettine di melanzane. Gliele offrivo in mano, avvolte in un tovagliolo di carta, oppure messe su un piattino, sul banco. Non smettevano mai di mangiare. Si davano il turno, uno dopo l’altro, a decine, a centinaia, c’era sempre qualcuno in piedi di fronte a me, dall’altra parte del banco, che masticava, triturava poltiglia fra i denti unti, la impastava in bocca con una birretta, un calice di vino oppure un’acqua minerale. I più perversi ordinavano succhi di frutta. Un arancino di riso e un succo di mirtillo, non so se mi spiego. Si ingozzavano a tutte le ore. Operai con i giacchetti di tela sporchi di calce, avvocati in giacca e cravatta, un uomo che veniva ogni giorno a farsi quattro crocchette guardandomi negli occhi, ragazzi appena usciti da scuola, signore anziane con borsetta e cappellino. Alle dieci della mattina. All’ora di pranzo. Alle tre del pomeriggio. Polpette, crocchette, frittate, patate. La fame, la fame inguaribile della città. Il suo disperato appetito. Alle cinque del pomeriggio. Ma non era l’ora del tè con i pasticcini? Sempre con quel cibo sotto il naso. -E sei fortunata che non lavori in cucina!-, dicevano i miei colleghi. Ma almeno in cucina non avrei avuto davanti agli occhi quello spettacolo. Mandibole che fracassavano spugne di olio fritto spremendole contro il palato per far colare voluttuosamente in gola tutto quell’untume. Uscivo dal lavoro impregnata di odore di fritto, mi sembrava di essere imbevuta di olio cotto. Mi lavavo più che potevo. Facevo la doccia sfregandomi fino a scorticarmi, poi mi immergevo nella vasca da bagno, restavo nella schiuma profumata per un’ora, mi asciugavo contaminando accappatoio e asciugamani, indossavo biancheria fresca di bucato che in dieci minuti sapeva di fritto. Ho cominciato a frequentare le saune. Sudavo, sudavo tantissimo, per lavare la mia pelle dall’interno. Ma così tutto il fritto che avevo respirato affiorava in superficie. Mauro mi ha lasciato. Mi ha detto che fra noi non c’era più l’intesa dei primi tempi, ma io so perché. Il giorno dopo, in rosticceria, sono andata in cucina e ho riempito un mestolo fino all’orlo, i cuochi non hanno fatto in tempo a fermarmi, sono tornata al banco in fretta, facendo attenzione a non rovesciarmi sui piedi l’olio incandescente. Ho puntato verso quello che veniva ogni giorno a farsi quattro crocchette, l’ho guardato negli occhi per l’ultima volta.


Tiziano Scarpa


Vedi +

Smemoranda 2016


Vedi +