“Attento a Mezzalingua… Devi stare attento a Mezzalingua, quello calvo, con gli occhialini quadrati, che è balbuziente.
Se n’è andato in pensione, ma collabora con i suoi, e applica sempre la regola: se ti becca mentre stai facendo la lasagna, t’arresta. Se lui non t’ha visto, ma tu hai la lasagna in tasca, devi fare la mezza. Fifty-fifty. Si chiama Musumeci, anzi Mu-mu-musumeci, ha-ha. Occhio, neh…”
“Occhio? Che occhio?… La mezza devo fare con uno sbirro in pensione, e perché?”
Sedevano al bar Las Vegas Due di piazza L. Mandrake, e cioè Montecristo Belloli, quarant’anni di borseggio, sorseggiava un rosatello. E Ginko, ossia Piero Porcù, vent’anni scarsi, si sparava una bionda birra. Dovevano aspettare. E aspettavano parlandosi a bassa voce, dall’angolo della bocca.
“Mi chiedi percheeé? Primo, devi fare quello che ti dico io. Secondo, perchè se avvisa l’altra sbirritudine, ti curano e finisci dentro, pisquano. C’è un terzo motivo. Sta alle regole, sono vent’anni che io e lui facciamo le stesse strade, gli stessi tram, gli stessi metrò, abbiamo due figli che hanno studiato. Quando mi ha detto ferma, mi sono sempre fermato… e lui non mi ha mai messo il portafoglio preso a un altro in tasca a me. Va be’, transeat. Speriamo di non vedere la sua pelata, oggi.”
“Per chiarire, Mandrake, sono diplomato ragioniere. Non voglio che mi definisci pisquano”, disse Ginko. “No, non ti de-fi-ni-sco pisquano, pui essere mio figlio, ragiunat de emme, va là. Lo sai perchè ho scelto te?
Perchè le tue mani finiscono con falangi di vinavil, sei il più bravo dei giovani, ti resta sempre attaccata la lasagna gonfia di soldi. E oggi, pisqua, il gioco di prestigio dev’essere fantastico, neh?”
“Beautiful”, sorrise Ginko dando una decina di pacche al suo borsone blu. Aspettarono un’altra ora, Mandrake pettinato all’indietro, con il cappotto di cammello delle occasioni migliori e Ginko, con le guance di polvere di carbone, che sembrava uscito da una settimana dalle parti di Fratel Ettore. Infine venne l’uomo, con il pizzetto e la valigia. Fiutava l’aria pallida.
I due balzarono fuori dal bar e si sitemarono sulla banchina: il più vecchio sotto il cartello, il più giovane molto più dietro. “Lo so cosa hai là dentro, non ci hai fatto ancora il callo , neh… I soliti 300 milioni in contanti, che ogni dieci del mese tu porti non si sa bene a chi, ne’ per conto di chi. E oggi non saprai nemmeno che capita alla tua lasagna” , pensava Mandrake, e se la godeva, evitando di fissarlo. Il colpo era in fase terminale da settimane, il loro dito era il cassiere della banca, il nuovo amico della Cetti, e con la Cetti non si scherza, o sei Zio Paperone o nisba, niente sesso matto. Salirono sul tram. Posti a sedere, zero. In piedi s’assiepavano, uno, due, dieci… “Diciassette Vincenzi? Orcodinci, il numero della disgrazia”, si lamentò il borsaiolo, toccandosi un cornetto d’avorio che portava in tasca da trent’anni. Era soddisfatto, però.
Folla giusta per far scattare l’ipotesi di piano A, la migliore. Si toccò l’occhio destro e Ginko, con la schiena contro i finestrini, cominciò a cantare: “Che fretta c’era, maledeeetta primaveraaaa, che fretta c’eeera…”
“Pizzetto”, sguardo spento, mandibola serrata, se ne stava al centro del tram, a suo agio tra la gente.
Mandrake si avvicinò al tranviere: “Scusi, debo andare in questa strada”, e gli mostrò un biglietto. L’autista smise di sbuffare quando sentì dietro il biglietto l’inconfondibile sporgenza zigrinata di una banconota da 50 mila. Squadrò la faccia, gonfiosamente bislunga nello specchietto retrovisore modello Atm. “La via…”, sillabò Mandrake.
Il conducente allora lesse il biglietto a stampatello: “Ho in tasca un milione per te. Ti passo i soldi subito. Accelera e frena di colpo quando io mi tocco la fronte. Se va bene, fammi sì e ridammi il biglietto.” L’autista sembrava perplesso, rialzò gli occhi. Sorrise, chinò la testa, sorrise ancora: nello specchietto retrovisore aveva riconosciuto Musumeci Gaetano, il vecchio poliziotto della squadra antiborseggio, che a sua volta annuiva con la testona pelata, schiacciandogli l’occhio.
Quattro giorni dopo su qua-qualche cronaca compariva il no-nome di un commer-mercialista incensurrrato al quale ignoti spararono ne-nelle gambe tre confetti calibro 7.65, mentre ma-mangiava al ri-ristorante, da solo.
Il gesto di un pa-pazzo, disse il co-commissario. Solo un quo-quo-quotidiano pubblicò la fotografia, con il pizzetto.
Io, Mu-musumeci Gaetano, po-poliziotto pensionato, inci-incido queste poche righe adesso che la memorrria mi sostiene. E’ stato tu-tutto rrrapido: il tram ha fre-frenato, il commercia-cialista è stato ce-centrato in pieno da Ginko e nella con-confusione la sua va-valigetta con il gra-grano è finita nel b-borsone blu, l’altra piena di carta è vo-volata, ma Ma-mandrake stava per terra, e il co-commerrrcialista strilla-lava. Si sta-va perdendo tempo, e così ho a-avuto l’ispirazione: “Polizia, ca-calma. Di chi è questa v-valigetta?” , e gli ho restituito al commerrrcialista, te-terrorizzato, la ve-ventiquattr’ore tarocca. Com’era contento…
E chi-chissà che faccia a-avrà fatto dopo. Ha-ha rubato una vita, e ci ha ri-rimesso poco, solo le ga-gambe, tutto sommato. Per giustizia, ho deciso di di-dividere per tre: cento milioni a te-testa.
Al di-dito, quello che ha indi-indicato il colpo, ci pensa Ma-mandrake, che è da-davvero un grande. La pensione, caro pa-parroco, lo sai, è quello che è, come lo era il mio s-stipendio di assistente ca-capo: lo Stato mi ha voluto tenero povero e ignorante, ma a mio, mio fi-figlio ho pagato un supermaster a Ca-ca-cambridge. E’ bravo, don Ma-mario. Mi perdoni, se può, e a-accetti questi dieci milioni per i po-poveri. Le ho se-sempre dato il die-dieci per cento, per i po-poveri.
E se non può perdonare, credo che lassusù Qualcuno, se non mi ama, forse mi c-capisce più di tanta ge-gente.