Ragazzi, ehi, ragazzi, sono Allegretti Danilo, classe 1980, istituto tecnico a Buguggiate, volontario nei parà, concorso nei carabinieri, vinto. Sono quello che due anni fa era stato salvato da un barcone di clandestini, ma dai…
Com’è che non mi sentite? È tutto buio, sento dei versi che conosco, è la salat el mout, la preghiera islamica della morte…
Ricordo. Ricordo che mi avevano trasferito a Milano, assieme al maresciallo Pirovano — non so come fa a starmi ancora simpatico. E dove ci avevano mandato di pattuglia? In via Padova.
Incontri mezza Italia e mezzo mondo in pochi chilometri quadrati. Tutti i giorni, le notti e i pomeriggi li passiamo tra kebab e negozi di parrucche, moschee e protesi ortopediche, cinema porno e secolari panetterie, bar dove si gioca a briscola e retrobottega dove risuonano le scatolette del Mah Jong. Pirovano dice che queste cose mi stanno bene perché “da allora” sono rammollito, io, che ero e sono leghista…
Una settimana fa, tarda sera, stavamo in attesa di perquisire il caseggiato di via Clitumno — sempre lo stesso, siano alla tredicesima perquisa — e ho visto passare lei. È una bella passerotta, purtroppo un po’ anziana, sui quaranta.
Seguendo il suo bong-bong, ho notato altri vegliardi, poi un pensionato magro, calvo, dal colorito giallastro, con gli occhiali bianchi. E c’era con lui un tipo sospetto: i capelli lunghi e tinti di biondo, le rughe spianate, le scarpe con il rialzo, il classico pirla che cerca di sembrare un trentenne. Stavo fantasticando su quel gruppo di persone quando Pirovano ha ordinato il suo “Go-Go-Go” — i film di guerra americani gli fanno un male, perché noi siamo in una fiction italiana. È intitolata Noi e loro.
Noi entriamo nelle loro case. Gli svegliamo i figli che dormono uno accanto all’altro, come i bastoncini di pesce. Gli controlliamo le pentole dove cuociono pane e miseria, ma niente arresti. Quando arriviamo noi, i clandestini sono già spariti da ore, quando ce ne andiamo, tornano. Noi rastrelliamo con educazione, loro spariscono con educazione. Questo è, se non ho capito male, “la sicurezza percepita”.
Ero in via Padova anche…
Poco fa? Un giorno fa? Non lo so più, ma chi ti rivedo? L’anziana, strizzata in un abito psichedelico. Seguo il bong-bong del sedere e riecco il pelato e pure il tipo che non mi piace. Io, Allegretti Danilo, carabiniere scelto, varesino doc, sfidanzato, penso che sia nostro compito provarci chiaro. Cioè, volevo dire, vederci chiaro.
“Pirovano, ascolta…”
“Smettila, tra me e te dopo il casino di Lampedusa c’è un contratto, no? Hai il diritto di abusare per una notte di mia moglie, di dividere la mia schedina del superenalotto in caso di vittoria e altre scemate. Mogli nisba, le schedine le controlli il venerdì, che vuoi. Allegretti?”
“Che andiamo — adesso, sì, adesso — a vedere che cosa succede in quel cortile.”
“Ma dai? Squalotto, che bello. Ti è tornata la voglia di rastrellare negher?”
Scendiamo dal blindato, procediamo, supero l’androne dove ho visto entrare il tipo sospetto. Vedo, con una ramazza in mano, un uomo. È scuro, è straniero. Ed è seguito da una moglie con il velo bianco in testa. Islamici. Si bloccano, mi guardano fisso. Pirovano già corre a chiedergli documenti, ma lo blocco e indico una porta grigia: “Non loro, dobbiamo andare là”.
I due stranieri mi sorridono, sono negher socievoli, è un po’ strano. Ma ancora più strane sono le note e le parole che sento martellare oltre una porta di grigio metallo:
Lo chiamavano Wolfango,
il fenomeno del tango.
Spingo la porta, la luce è fioca e cangiante, il tizio sospetto ha anche un dente rotto, e ha anche lo sguardo rotto, e si tiene stretta stretta una secca e alta, vestita da ape maia. Alcune coppie ballano abbracciate, qualche donna ha una rosa tra la dentiera. La quarantenne bong-bong svetta sul ciuffo a banana di un ragazzino di tredici anni, le guance rosse come un tramonto, che le ripete: “Fiducia”.
Appena ci vedono entrare, si staccano gli uni dagli altri. C’è chi grida, chi impallidisce, il pelato con gli occhiali bianchi corre verso Pirovano. Conosce i gradi: “Maresciallo, l’ho chiesta al Comune, la licenza, siamo in attesa. E l’assessore è dei nostri.”
Pirovano mi scruta come se volesse scegliere il punto in cui spararmi: “E voi chi sareste?”.
I tamarri parlano tutti insieme, ma li zittisce il tipo losco: “Siamo del dopolavoro della ditta Arvagen. Chissà se la ditta riaprirà, con ‘sta crisi. Intanto ci teniamo in forma, con la sala da ballo, per i soci più alcune studentesse di danza e liscio. Abbiamo un corso”, spiega, indicando le meno vecchie.
“E ci mancavano le forze da sballo”, scherza la psichedelica.
Il tipo alza le spalle e conclude: “E restiamo amici e colleghi, vieni qua”, ordina a un panzone in un tragico gessato grigio e verde. “Lui è consigliere di zona della Lega.”
Sono leghista anch’io, in fondo, anche se…
Anche se…
Nel cortile non c’è più la coppia afro e Pirovano m’ha lasciato indietro: bisogna organizzare le perquise, “quelle serie”, ha detto. Resto da solo, passano i minuti, lenti, inesorabili, immobili, e succede quello che speravo. La porta si apre, l’anziana esce in cortile e si accende una sigaretta.
“Come va?”, domando.
“Se devi imparare qualcosa, fai la polka. Quando si tira su la gamba da dietro, al massimo del virtuosismo uno riesce a darsi i calci da solo”, è la risposta.
“È una metafora, signora?”
Mi soffia il fumo in faccia: “Mi hanno assegnato un vice maestro che pesa tredici chili e ha, credo, tredici anni. Quando m’ incarto mi dice: eh, fiduciaaaa… Che bello sarebbe applicare questo metodo alla vita. Fai finta di aver capito i passi giusti e vai avanti, tanto alla guida c’è un altro. Purtroppo…”
Non afferro il concetto, ma il ghiaccio è rotto e, in base al manuale del detective, posso procedere: “Scusi, ma il suo amico con capelli tinti chi è?”.
“Non le piace? Nemmeno a me. Ci ha detto che è un poliziotto e anche che insegna un’arte marziale vietnamita. In effetti, ha le mani come tentacoli di un polipo.”
“Ma polipo a parte, c’è qualche ragione per…?”, per che cosa, che non lo so nemmeno io.
“Per dubitare? Non so, ma l’altra settimana avevo un po’ troppo ossigeno nel cervello e gli ho chiesto se si era infiltrato per sgominare la banda dei vecchietti cocainomani.”
Spegne la sigaretta nell’aiola di un glicine di una dozzina di metri: “È diventato giallo e verde, ha alzato la voce. ‘Insomma, come fanno a ballare due ore senza sosta?’, gli ho chiesto, ma è privo di senso dell’humor”.
“Sa per caso come si chiama?”, le chiedo.
“Mi chiamo Sonia dalla nascita. E tu?”
Alzo gli occhi al cielo e vedo, al secondo piano, la donna con il velo bianco. Mi saluta e mi sorride, anche i denti sono bianchi.
“Scusa, volevo sapere il nome del polipo”, spiego.
L’uomo scuro si sporge dalla ringhiera, si sbraccia, ci invita a salire.
“Si chiama Willy Rizzi, e non mi aspettavo un carabiniere con tanti amici qua dentro, c’invitano, andiamo”, propone la ballerina.
Bong-Bong, questo è saper salire come si deve le rampe delle scale…
L’uomo mi abbraccia appena sono sul ballatoio: “Amico mio, fratello italiano”. Imita il nuoto a rana: “Amhed, Sicilia, la barca”, dice ancora, e finalmente capisco.
E ricordo. Allegretti Danilo, carabiniere scelto. La donna velata è quella che teneva in braccio il bambino, e quel bambino mi preoccupava: era pieno di mosche anche in mezzo al mare, e adesso è là, bel cinghialotto. Era questo Amhed a darmi da bere: “Senza di te – gli dico – sarei morto”, quello stronzo del timoniere voleva ributtarmi nel Mediterraneo.
“Fratello, sei stato grande tu. Bello ritrovarsi, bella coincidenza.”
“Milano sembra grande, ma è…”
“Ma senti, non dirmi che la polizia ha mandato proprio te per la storia del glicine?”
“Non so niente, e sono carabiniere.”
Amhed spiega: “Ho telefonato molte volte, voglio essere un buon cittadino, forse mi riconoscono la laurea in medicina… Vieni a vedere con i tuoi occhi. Lascia il casco e il manganello, e seguimi senza far casino, che svegli tutti”.
Mentre le donne bevono the verde, noi torniamo nel cortile. Sotto il glicine nodoso, la terra è smossa. Me ne accorgo ora, cappero.
“Quello con il dente rotto prende qualche cosa di qua e la porta di là. Succede tardissimo, quando sono rimasti in pochi, sempre gli stessi. Compreso uno che mi tratta male, uno vestito sempre di verde. Tra poco escono, vedrai, magari puoi arrestarlo…”
“Bisogna vedere se è… Va bene, va bene, in effetti sarà come dici tu.”
“Ma ti apposti da solo? Sei pazzo? Fammi chiamare almeno qualcuno dei miei…”
L’ape maia e alcune coppie se ne sono andate, il maestro-ragazzino è salito sull’utilitaria di una nonna con le calze a rete e la musica è finita.
Finalmente, il mio obiettivo esce. Si guarda intorno. Va a frugare tra le radici del glicine, ha preso un pacchetto. Non c’è nessuno, tranne me. Sono nascosto dietro i bidoni della carta. Allegretti Danilo, carabiniere per vocazione, troppo giovane per morire. Mi sono lanciato addosso, ma vedo Willy Rizzi che si sposta, ruota sul gomito — era vero che conosceva una lotta vietnamita, cappero — e mi centra con un calcio alla tempia. Le luci si sono spente.
Spente…
Ma ora vedo lampeggiare uno spiraglio, come se fossi in Paradiso. Impossibile.
Impossibile…
Non esiste che Pirovano sia in Paradiso, e pure in divisa.
“Ohi”, mi esce dalla bocca.
“Squalotto, secondo i medici dovevi essere in piedi tre ore fa… Ma quando hai addestrato tutti quei negher?”
Ohi…
“Avete arrestato i matusa, sequestrato la roba e alla fine sono venuti pure qua in quaranta a pregare per te, prima che li sbattessi fuori dal pronto soccorso. Ti sei fatto una squadra d’infiltrati, eh, bastardone? Aria di encomio.”
Infiltrati, encomio…
Mi guardo intorno, vedo anche lei. È psichedelicamente irradiata di luce. Com’è che si chiama?
“Rizzi, quello impomatato e con il dente rotto, non è un poliziotto, ma era — la voce del maresciallo mi arriva come da un altoparlante — uno dei vigilantes della ditta Arvagen.”
Sonia, si chiama Sonia, me l’ha detto, e mi stringe la mano.
“Un bel farabutto, prima aveva organizzato con gli impiegati più anziani i furti al reparto spedizioni, poi ha convinto la banda dei dipendenti ladri a darsi allo spaccio.”
Fosse facile…
“E andava alla grande, da tre anni il Cral della Arvagen, riusciva nel suo principale intento, portare i soci a Santo Domingo. Più tardi — esulta Pirovano — viene il colonnello, magari ci manda all’antimafia. Che cosa ci scommettiamo questa volta?”
Mi viene spontaneo fare una precisazione: “La moglie no, maresciallo, facciamo che da oggi in poi ognuno si tiene la sua.”
Mi guarda come se non mi capisse e se ne va, mentre Sonia — Sonia, un bel nome per un bel bong-bong — va a tirare la tenda intorno alla barella, e si fa più vicina, vuole sapere come sto.
Fosse facile baciare un’anziana.
E se mi dà una sberla?
Massì, ragazzi.
Come sto…
Come sto.
Un sacco meglio.
© 2010 Piero Colaprico / Agenzia Santachiara