Si era quasi fatto buio e il vento faceva correre nuvole scure e gonfie, con strascichi bassi che lambivano le montagne. Il biancore del lampo e il ruzzolare del tuono innervosivano la cavalla; Giuseppe staccò in fretta il carro e aprì l’uscio della stalla, prese la Nina per la briglia e la condusse al suo angolo.
Poi si sentì rombare la pioggia, e il mondo sembrò rilassarsi; il lampo non era più così livido, il tuono non più così secco, sotto quella purificazione imperiosa e risolutiva come un sacrificio. Un odore selvatico di terra bagnata accolse Giuseppe quando si affacciò fuori dalla stalla; lo scroscio fumigava sul terreno, il cielo sbiancava dietro la muraglia d’acqua. Si lanciò di corsa, ritrovandosi in pochi secondi negli odori fermi e caldi della casa.
Pietro guardava la finestra ad ogni tuono sempre più lontano. Aveva otto anni e non aveva paura del temporale, ma adesso che il babbo era tornato si sentiva meglio. Alma spostò il lume a petrolio dal gancio nell’angolo a quello sopra la tavola, e nel muoverlo la luce e le ombre agitarono fantasmi sui muri.
“Mi ha inzuppato il campo”, disse Giuseppe togliendosi le scarpe, “domani non si potrà arare.” Mangiarono in silenzio. Giuseppe aprì la porta a guardare su verso la cima del monte e in quel momento il gallo cantò nel pollaio. “Canta il gallo dopo cena. Credo che domani farà bello”, disse.
E l’indomani era bello davvero. Un’aria lavata e fina si scaldava al salire del sole, quando Giuseppe aprì la stalla ed entrò per governare le bestie. Si avvicinò all’angolo della Nina, e gli parve che qualcosa non fosse a posto. O meglio: che tutto fosse troppo a posto. Lo strame era stato cambiato con paglia pulita, la mangiatoia era colma di cibo, i finimenti rilucevano come per una paziente pulitura. “Ossignore”, disse fra sé, e corse in casa per parlarne subito ad Alma. Le raccontò il fatto a bassa voce perché Pietro, che già s’era svegliato e gironzolava per casa, non sentisse. Alma non capì subito. Continuò a sfaccendare con le scodelle sul tavolo e a controllare con un occhio il fuoco appena acceso.
Giuseppe dovette dirglielo e spiegarglielo tre volte. E allora lei si sedette e si fece il segno della croce. “Gesù”, disse, “ma che stregoneria è mai questa?”
Pietro, che aveva sentito e capito ancora prima della mamma, cominciò a figurarsi cose strane e paurose. Delle streghe aveva sentito tanto raccontare, e sapeva che erano vecchie, brutte e cattive. Potevano essere nascoste dappertutto e arrivare di soppiatto, magari volando a cavallo di scope o di pecore nere, come pipistrelli smisurati.
Giuseppe, dopo l’emozione iniziale, ai misteri non ci pensava più. “È Tonino che m’ha fatto uno scherzo e mi vuol fare paura”, disse, e ne pareva convinto, anche se Alma non credeva che Tonino, di notte, da una casa a un chilometro di distanza, avesse camminato sui sentieri fangosi del monte per venire a pulire la cavalla, al buio.
Tonino era di casa, passava spesso a fare due chiacchiere, a dare una mano in certi lavori. E di scherzi ne aveva fatti tanti, si era riso, e li si era ricambiati. Ma questa era stramba, e se era uno scherzo era proprio da raccontare.
***
Pietro camminava nell’aia, zuppa dell’acqua caduta la sera prima. Teneva Belva al guinzaglio e il grosso cane strattonava e annusava intorno. “Che guardia che fai, Belva!” gli diceva il bambino. “Vengono le streghe nella stalla e tu non abbai neppure!” Belva non accusava il rimprovero e continuava a tirare e a ficcare il naso in giro.
Quando il cane diresse verso la stalla, Pietro ebbe un attimo di esitazione. “No, lì no!” disse, e mollò il guinzaglio. Belva continuò a trotterellare per conto suo. Lentamente, Pietro girò e rigirò da solo attorno alla stalla. Non aveva paura ma certo là, dietro quella porta, era successo qualcosa che non si spiegava. Ed era meglio stare attenti, non si sa mai.
Passando vicino al mucchio del letame, dietro il quale cominciavano le vigne, vide le impronte. Pareva dove è passato un animale selvatico, circospetto e silenzioso. Erano piccole, come di un bambino appena nato, ed erano nette nella terra morbida di pioggia. Rimase a guardarle e chiamò Belva. Il cane arrivò di comodo suo, e ci volle tutta la forza delle braccia di Pietro per convincerlo ad abbassare il muso su quelle orme. Ma non le degnò di nota. Strano. Per le impronte degli animali selvatici Belva andava pazzo; e queste, lo capiva anche Pietro, non erano di un animale domestico.
Quando Giuseppe tornò, disse, senza dare importanza alla cosa e anzi ridendo, che non era stato Tonino a fare lo scherzo. Ma quando Pietro lo convinse ad andare a guardare le piccole orme, un po’ di baldanza gli passò. Non assomigliavano proprio a nessuna di quelle conosciute. Però erano così piccole, e di animali ne girano tanti, e forse ci aveva piovuto sopra e per quello parevano strane.
La sera, dopo mangiato, una nebbiolina sfuocava tutto, le montagne si addormentavano, misteriose, lì ferme fin da quando era nato il mondo. Mamma sparecchiò, babbo fumò un sigaro. Ma ogni tanto, a qualche rumore nel buio che infittiva, tutti si fermavano e rizzavano le orecchie.
***
Per qualche giorno non successe niente. Si cominciò ad arare, e Giuseppe e le bestie faticavano tutto il giorno su per i pendii. Poi la notte di un venerdì, fitta di stelle, si sentì la cavalla nitrire, sbuffare. Poteva essere solo un topo; ma Giuseppe fu in piedi in un minuto, con Alma che sempre in quel minuto aveva già acceso il lume, detto due preghiere e preso Pietro per mano.
Insieme si avvicinarono all’uscio. Giuseppe respirò forte, aprì e guardò. Le mucche erano in piedi e parevano inquiete, e inquieta era la cavalla. La paglia e la greppia non portavano segni di stranezze, ma la criniera e la coda della Nina erano tutte annodate e intrecciate, un incredibile lavoro di precisione e di pazienza. “Il Mazapegolo”, disse forte Giuseppe, “il Mazapegolo!”
Il giorno dopo Giuseppe, Alma, Tonino, ed era venuto anche zio Sanzio dal paese, parlarono a lungo sotto l’ombra di un albero in cortile. Quando un Mazapegolo si mette attorno a una bestia può solo giocarci, farla bella con nodi e trecce nei crini, pulirle lo strame, darle foraggio, oppure, se muta d’umore, può fare danni anche grossi, e non solo all’animale.
Pietro aveva sentito tante volte parlare del Mazapegolo: gnomo o folletto, vive nascosto nei boschi o chissà dove, e ogni tanto s’accosta a una casa a fare burle o dispetti. Pochi l’avevano visto: solo i più vecchi raccontavano storie di incontri.
“Per essere sicuri di cacciarlo via per sempre”, disse lo zio Sanzio, “bisognerebbe rubargli il suo berretto rosso. Senza quello, perde ogni potere.”
“E come glielo piglio, ’sto berretto?” chiese Giuseppe.
Nessuno seppe dargli una risposta.
La sera scese piena di colori, col sole che incendiava il vallone nel tramonto. Dopo una cena pensierosa, babbo trafficò in cantina con gli arnesi per la vendemmia, e Pietro s’avvicinò a mamma che agucchiava e le appoggiò la testa sul grembo caldo. Fuori, nel buio della montagna nebbiosa, nei boschi scuri, camminavano i folletti, strisciavano gli animali selvatici e gli gnomi, volavano i gufi dagli occhi gialli e le streghe dagli occhi cattivi, e tutto quello che era lì da sempre, da prima del babbo, da prima del nonno, da prima della casa, continuava a girare, a sussurrare fra gli alberi, nei valloni, sulle cime, nelle forre.
Quella notte Pietro fece sogni strani, babbo dormicchiò con le orecchie aperte, e Belva abbaiò una volta. Ma socchiudendo gli scuri della finestra si vide solo una foschia argentata da una lontana luce di luna, e nient’altro. Il mattino dopo la stalla era tranquilla. Quello dal berrettino rosso non era venuto, forse era rimasto a girare fra i cespugli del bosco, guardando il fumo e le faville salire dal camino della casa.
***
Per qualche tempo il Mazapegolo non venne. Poi, una notte, Pietro si svegliò. Una luminosità fredda filtrava tra gli scuri, e il bambino, pur senza udire niente, capì con certezza che qualcuno era vicino alla casa. Si alzò, si avvicinò alla finestra, l’aprì e vide che tra ragnatele di alte nuvole una luna gonfia rischiarava la notte. E sul bordo del pozzo, a pochi metri dall’uscio della stalla, c’era qualcosa; aguzzò gli occhi e dopo un po’ capì cos’era: un berrettino rosso.
Silenzioso e scalzo uscì in quella luce magica e strana. Tutto era d’un silenzio irreale, nel chiarore della luna, e le cose di tutti i giorni parevano diverse e mai viste, e il pensiero e le sensazioni si erano come fermati, solo c’era quel berrettino rosso sulle pietre bianche e grigie del pozzo. Pietro si avvicinò a piccoli passi, tese il braccio e prese il berretto in mano; poi fischiò, e subito Belva gli giunse vicino, scuotendo la coda.
Dopo meno di un minuto, dalla stalla, anche il Mazapegolo arrivò silenzioso e si fermò a una decina di metri dal bambino e dal cane. Belva si immobilizzò a fissarlo con le orecchie dritte, sconcertato e teso come le corde di un violino. Pietro, guardando la figurina scura, alzò il braccio all’indietro, portandolo al di là del bordo del pozzo, e il berretto vi si trovò sospeso sopra, con la mano che poteva lasciarlo cadere giù in ogni momento.
Il folletto, a passi rapidi e corti, si avvicinò al bambino ed emise un gemito che pareva un sospiro, o un’implorazione. Stettero ancora così a guardarsi. Poi Pietro, all’improvviso, finse di porgergli il berretto. Il Mazapegolo camminò verso di lui, e prima che si accorgesse di essere stato giocato Pietro gridò: “Vai Belva, attacca!”
Il cane partì di slancio. Ci furono un viluppo improvviso e violento, un groviglio vorticante e un luccicare di denti, poi Belva, ansimando, leccandosi e deglutendo, tornò accanto al bambino che lo accarezzò sulla testa, e nella luce bianca della luna si incamminarono insieme verso la casa addormentata.