Poiché, dopo aver mangiato il primo biscotto, continuava a fissarmi con i suoi occhi color lampone, decisi di parlargli. E gli dissi: “tu adesso hai tre anni, il che significa, se vogliamo rapportare la tua età a quella dei bambini, che vai al liceo. Ma non hai cultura, manchi di forma e non hai vestiti, se non questo pelo grigiastro che non è la tua cosa più smagliante. Anzi: gli unici che si salvano – che ti salvano – sono i peli cresciuti intorno al tuo naso e che, salendo verso gli occhi, ti fanno assomigliare a un essere forestale. Ma voglio ammettere che la cultura non è dimostrato che serva. Aritmetica non se ne parla e si può quasi giurare che non ne hai bisogno. Ma non insisterò perché, dopotutto, io non sono un tipo pedagogico. Quello che ti voglio dire è che sbagli di grosso a non eliminare certi difetti. Per esempio: sei troppo cane. E visto che vivi con me giorno e notte da tre anni, potresti anche aver capito che non sempre sopporto la tua voce. Non tutti i rumori della casa sono nostri, non tutti ci riguardano. Che mania è la tua di scaraventati verso la porta digrignando i denti per poi tornare, scornato, vicino a me, livido di vergogna per aver strillato a vuoto? Non potevi discernere? o lasciar perdere?” Bubù accettò il discorso e il secondo biscotto. Ora sorrideva, il naso perfettamente nero e umido; e la sua lingua non usciva se non per spazzolare quell’odore di fornaio e di pane. Rinfrancato disse: “adesso che ci penso, nemmeno tu mi vai completamente a genio. Eravamo intesi che al mattino, prima della zuppa, mi davi tre biscotti. Diconsi tre. Non trenta. Quanto la fai lunga. Mi dai il primo e va bene. Ma quanto tempo devo aspettare il secondo? Mi arriva solo dopo che mi hai spiegato che non ti convinco completamente, che il mio pelo non è quello che sognavi, per finire con quella solfa degli studi. Bene: tu che hai studiato tanto, non mi sembri molto intelligente. Altrimenti lasceresti perdere. E quando arriva il terzo biscotto, lì allora la cosa ti va perché mi sdraio lungo disteso e tu cominci a guardarmi e a dire quelle tue frasi stolte come: ma guarda che bella pancione che ha, eccetera. E poi c’è quell’altra tua frase che sarebbe un po’ l’emblema della tua intelligenza, quando dici: caro Bubù, per quanti sforzi tu faccia, ricordati che sarai sempre un cane. È una frase che ti deve aver colpito, tanto è vero che la dici soprattutto quando ci sono ospiti. Da come ridono, da come si divertono, il loro livello deve essere modesto”. “Tutto, ma non un cuore” sillabò mentre inghiottiva il terzo biscotto e aveva ragione lui perché quel mattino, invece dei soliti crackers che costano meno, gli avevo offerto dei veri biscotti. All’apparenza. Infatti erano raffermi e nessuno, tranne lui, li avrebbe mandati giù. Mentre guardavo la sua grazia pensavo che avere un cane è una bella fortuna, ma lo pensavo in senso schifoso, egoistico e Bubù, dal fondo della sua eterna riconoscenza da cane, mi mandava a dire: “hai mai mangiato biscotti raffermi?” Risposi che una volta ci avevo provato. “Bel”, disse Bubù, “fanno schifo. Li mangio perché sono affamato, ma non ti vergogni?” “Sì che m’vergogno, ma tu sei un cane e allora mangia e zitto.” “Certo che mangio, ma zitto non ci sto. Fai pietà, uomo. Proprio tu che scrivi e la fai tanto lunga, che guardi la luna come se la vedessi soltanto tu, non sai aove sta di casa la bontà. Non sai quindi niente dell’amore. Mi pari un poveraccio senza cuore…” Qui Bubù si fermò perché, col suo innato senso musicale, capì che aveva svanverato. Glielo feci notare: “non si può dire ‘mi pari un poveraccio’ Si dice: mi sembri. Mi sembri un poveraccio.” “D’accordo”, ammise Bubù mandando giù il quarto di biscotto raffermo, “mi dai di più perché se no li sbatteresti giù dalla finestra. Mi sembri un poveraccio. Se appena tu lo volessi potresti aver bisogno di me e la tua vita cambierebbe. Tu pensa, diventare uno che ha bisogno di un cane. Ti sembra poco? È il massimo, una specie di evangelo, adesso dirai che bestemmio, ma veramente io ci credo: l’uomo, più che con la donna, è stato fatto per stare con un cane. Anche la donna, s’intende, è stata fatta soprattutto per stare con un cane, e tutti voi fareste meno pena se vi accorgeste di essere stati fatti per stare con un cane. Per via della nostra faccia”, affermò Bubù convinto. “È attraverso la nostra faccia da cane che voi potete capire la bontà. Ti ascoltavo l’altro giorno quando cantavi in bagno. Eri carino. In quel momento lì ho creduto di essere tuo parente: perché cantavi. Non lo fai molto spesso. In quel senso lì dicevo che mi parete dei poveracci.” “E dagliela Bubù”, dissi spazientito, “impara l’italiano! Quando vuoi lo parli benissimo.” “Certo”, rispose, “ma la felicità non è lì”, rispose citando Cechov e aggiunse: “Tre sorelle atto secondo, scena quarta.” “Come scena quarta?” replicai. “Be’, non sarà la scena quarta, però sempre Cechov è.” Aveva ragione lui. Gli diedi il quinto biscotto raffermo e lo mandò giù in modo radioso. Al quinto biscotto Bubù si lasciò andare per terra come morto. In realtà non dormiva affatto ma esigeva che lo guardassi in ogni dettaglio. Teneva la bocca semiaperta e un angolino lasciava scoperti due incisivi. Sembrava in un sogno, con Buster Keaton vestito da marinaio che spazzola fuori dalla nave. Un giorno che era senza guinzaglio, e l’avevo perso, lo ritrovai dopo un’ora sul portone di casa che mi aspettava. Eravamo a Cortina per le vacanze e aveva attraversato tutto il paese e poi prati su prati, senza esitare sul percorso. Riconobbi i suoi meriti. La sua risposta fu: “eccomi qua. Mentre tu, senza offesa, saresti perduto senza quelle tue stolte carte del Touring Club.” In realtà pensava: “come ti sei conciato uomo. Tra poco hai sessant’anni e sei ancora lì che non hai il coraggio di ammettere che tutto si è sbriciolato fra le vostre mani. Mesi fa, per esempio, non volevi scrivere un articolo lapidario dal titolo “La liquefazione del partito socialista italiano”? Perché non l’hai scritto? Perché sei arrivato al punto, siete arrivati al punto, che tanto è lo stesso. Guarda che rinunciare è brutto. Il tuo motto dovrebbe essere: non può essere finita così. Ti secchi quando abbaio, quando un piede naviga nelle nostre direzioni. Tu, per molto meno, stai al telefono delle ore. E i tuoi figli? Non ti fanno ogni sorta di ricatti morali? È una pena sentirti parlare di loro. Ti rallegri che non siano drogati, ringrazi il cielo che non siano estremisti o bombaroli, insomma cali le braghe subito. Siccome non fanno sfracelli possono chiederti ogni sorta di regali. Begli studi avete fatto. Mi parete scemi.” Bubù si scosse per vedere se avevo sentito il suo orrendo italiano. Ma quando mi parla dei figli, o del partito socialista, io non sto tanto attento all’ortografia. Soffro troppo. Soffro al pensiero che la gente come me è alla fine della vita e vive in un paese dissennato. Il colmo è capitato l’altra sera al telegiornale quando, dalla Sicilia, hanno trasmesso un servizio su un paesetto tutto moderno, ma disabitato – “fatiscente” aveva detto il telecronista – che la Regione aveva fatto costruire perché i contadini ci andassero a lavorare. Ma il paese era stato progettato in mezzo ai sassi, qualcuno provò a zappe, niente cresceva, ci appesero anche la Madonna, poi la gente scappò via. “Potrebbe essere un buon rifugio per ricoverarci i profughi vietnamiti”, ipotizzava la nostra televisione. Scherzavano o dicevano sul serio? Mentre io mi chiedevo in che paese vivo, Bubù spense la coda e se ne andò verso il letto. Là mi attese per molto tempo, tutto quello che ci voleva per lasciarmi vedere un filmetto gangster. Gli passai accanto in punta di piedi, ma aprì un occhio. “Hai avuto la tua bella giornata, uomo, e adesso magari ti leggi qualche rivelazione sul partito socialista?” “Oh ma dico, perché ce l’hai tanto coi socialisti? Cosa ti hanno fatto, figlio di un cane che non sei altro?” “A me proprio niente”, disse Bubù, “ma a te molto, perché ti hanno molto deluso.” “Non soltanto loro”, risposi stizzito. Ripetè ancora una volta: “mi parete scemi” poi si mise per traverso nel corridoio, nel suo solito indiscreto modo di esistere.