Yanez e il collega De Simone. Dedicato a Loris M.

di Enrico Brizzi su 12 mesi - Smemoranda 2007





Il bilocale del collega De Simone, manifesti dei Grateful Dead a parte, è un posto molto sobrio.
Due sedie, due poltrone in vacchetta che si fronteggiano, una televisione e uno stereo di gran classe posato su scansie pensili.
Mangiate seduti a un minuscolo tavolo ribaltabile, scrutando di sbieco le notizie del Tg3.
Per non sporcare la divisa, portate avvolti intorno al collo un paio di canovacci.
Poi De Simone insiste perché ti metta comodo; ti offre la seduta della poltrona più vicina, all’ombra dei pensili che ospitano lo stereo.
Mentre arde la fiamma sotto il ventre piatto della moka, il collega ti mostra alcune foto di un viaggio a piedi che, un paio di estati fa, l’ha portato dalle coste dell’Adriatico a quelle del Tirreno.
Lo si vede in canottiera, le braccia nervose ripiegate sugli spallacci, mentre sbuffa in salita; lo si vede sorridere, un cappello di paglia ben calcato in testa, di fianco a una bacheca in legno cui è affissa la mappa della Garfagnana.
Quella volta si è giocato le ferie fino all’ultimo respiro, ma dice che nessun momento della sua vita è stato paragonabile a quando ha traversato la spiaggia di Forte dei Marmi, davanti ai bagnanti perlopiù anti-democratici e, senza che nessun bagnino osasse fermarlo, è entrato in mare fino alla cintola con lo zaino ancora in spalla.
Dice che una volta o l’altra dovresti unirti a lui. Magari, per cominciare, l’estate prossima potreste raggiungere Firenze lungo la vecchia strada romana che si snoda attraverso i boschi.
Per un po’ provi a immaginarti ad arrancare, sotto il fitto dei castagni, alle spalle del collega De Simone.
Bevete questo caffè niente male proveniente dal circuito del commercio equo e solidale, poi De Simone raccoglie da una scansia la busta del tabacco, le cartine in carta di riso e tu capisci che i discorsi relativi ai viaggi ai piedi erano solo un preludio, se non uno uno stratagemma, pensato per distogliere la tua attenzione da minacce molto più vicine.
“Abbiamo mezz’ora buona”, sibila sprofondando sulla poltrona libera, “per rilassarci e stendere i verbali in bella copia prima di tornare alla centrale.”
Un piccolo posacenere di ceramica ha fatto la sua apparizione, e per un po’ il collega De Simone soffia e sbuffa come il dragone, lasciandosi andare, di tanto in tanto, a commenti degni di un uomo ferito a tradimento.
“Magari metto su qualcosa”, dice. Stringe in pugno la scocca del comando a distanza dello stereo. “Dobbiamo farci forza”, ammette e, levando il braccio fino all’altezza del volto, con l’occhio a infrarossi del comando a distanza punta le scansie pensili sopra la tua testa.
Puoi solo immaginare il display dello stereo che prende vita, l’improvviso affollamento di numeri e caselle a cristalli liquidi.
All’inizio, dalle casse dello esce solo un ritmo dispari di legno che batte contro legno, ma quasi subito prendono a pulsare i rimbalzi e le rotazioni sul posto di una linea di basso che ti sembra di conoscere da molto tempo.
“Materiale d’epoca”, azzardi. E per darti un tono aggiungi: “Epoca vinile.”
Le rotazioni sul posto della linea di basso conferiscono alla intro un incedere caracollante, che al tuo cerebro annebbiato suggerisce l’idea di un robusto quadrupede, meglio un cinghiale, deciso a danzare in onore della primavera.
Per un po’ riesci solo a immaginare questa radura messa a soqquadro dal cinghiale che si sforza di ballare in punta di zoccoli, poi una voce – la voce cara di Joe Strummer – entra da lontano e annuncia che sono in arrivo i Magnifici Sette. E subito dopo, incurante di essere un punk inglese bianco del 1981, il vecchio Strummer prende a tessere stupefacenti metriche rap.
“È il titolo di un film western”, annuncia De Simone ammiccando nel vuoto. “The magnificent seven, dico. È il titolo di questa canzone e il titolo di un vecchio western.”
“Una citazione della madonna”, dici cercando di intercettare il suo sguardo liquido. “Mi sono sempre piaciute, le band arrabbiate in grado di infilare qua e là citazioni della madonna.”
“Una pellicola fondamentale”, insiste De Simone. “Con Yul Brinner e Steve McQueen.”
Se c’è qualcosa in De Simone che, di tanto in tanto, riesce a infastidirti, è la sua tendenza all’enciclopedismo. Non puoi nominare in sua presenza un libro o un film senza che si senta in dovere di raccontarti tutti i retroscena e i collegamenti sotteranei di cui è a conoscenza.
“In pratica” riprende “il film nasceva come omaggio americano ai Sette samurai di Kurosawa.”
A volte, basta restargli a fianco per mettere in moto un meccanismo inesorabile, capace di autoalimentarsi per ore.
“Nel film c’era anche un giovane Charles Bronson, se non sbaglio. Un successo strepitoso, se conti che il riferimento a Kurosawa non l’ha capito nessuno. Neppure i produttori, intendo, e di certo non il vecchio Kurosawa.”
Forse, ti dici, la tendenza all’enciclopedismo deriva dal fatto che De Simone è abituato a ragionare ad alta voce.
Tutte le paranoie che discendono dall’indossare una divisa, gli sguardi cattivi che la gente ti sputa addosso quando cammini per strada, adesso sembrano solo il ricordo di un malinteso, la memoria di una piccola tassa che devi pagare per errore giorno dopo giorno.
Se i cittadini potessero vedervi in questo momento, abbandonati alla musica dei Clash dentro il bilocale dell’agente scelto De Simone, le cose sarebbero molto diverse.
“Capirebbero, no, che siamo uomini come loro”, mormori sovrappensiero.
“Non fare l’ermetico, Yanez”, mormora De Simone fissando il soffitto. “Di chi stiamo parlando, adesso?” È come parlare con un uomo dal collo gravemente slogato, ma la sua voce è incoraggiativa, curiosa, vibrante di ironia.
“Parlo della gente”, dici. “La gente che ci disprezza e ci chiama ‘sbirri’. Quelli che proprio non riescono a rendersi conto che scendiamo in strada per aiutarli.”
“Oh, vecchio, lo sai anche tu che non è colpa di nessuno. Non viviamo mica nell’Impero del Giappone” sorride. “Siamo nati in un paese dove la legge è considerata da sempre la soluzione dei deboli.”
Le parole di De Simone mettono i brividi, ma sai che ha ragione. D’altronde, mica sei nato poliziotto municipale. Quando ancora vivevi tra l’appartamento di tua madre e le sale studio occupate della facoltà di Lettere, avevi un’opinione molto precisa sugli uomini in uniforme; l’avevi anche più tardi, i primi anni di matrimonio, quando ti ostinavi a svegliarti alle quattro per guidare il camion fino a Sanremo, caricare bancali di begonie e tulipani per tornare al volo in città e distribuire gli ordini ai fiorai.
Era un lavoro così faticoso da lasciarti devastato fino a sera, ma avevi ventidue anni, un bambino di nome Igor e una moglie che ancora studiava all’università. Poi, quasi a sorpresa era arrivato anche  Yuri, e i buoni consigli del padre di tua moglie avevano preso a infittire.
“De Simone” risorgi, “a volte mi viene voglia di mandare tutto a quel paese. Intascare la liquidazione anticipata, sai, e tutto il resto.”
“Non lo farai, vecchio Yanez.”
“Altre volte, invece, mi viene voglia di perdere la memoria.”
“Non lo farò nemmeno io, mi sa. Forse all’inizio, dopo un anno o due, ma non dopo tutto questo tempo.”
“Metti che ne ho piene le palle dei ricordi”, dici. “Se prendo la pistola e comincio a colpirmi col calcio in mezzo alla fronte, con mano ferma, come la fronte non fosse la mia, quanto posso metterci a perdere la memoria?”
“Non fare il coglione, Yanez. Alla fine, quanto ti manca per la pensione? Otto anni di servizio? Dieci?”
“Sette anni e due mesi di servizio attivo” dici, “altri due anni a intristire in ufficio e poi il Corpo comincerà a pagarmi ogni mese per non venire a lavorare. Ho cominciato presto, io.”
Solo nel 1983, con un passato da trasportatore di fiori e due figlioli da nutrire, hai cominciato a sentire ripetere con insistenza che il Vigile Urbano era un ottimo mestiere, ben pagato e rigorosamente privo di rischi reali.
Il padre di tua moglie, anni prima, aveva ricoperto la funzione di consigliere comunale, e manteneva ancora buoni rapporti con molti dirigenti.
Nel giro di due mesi ci sarebbe stato un concorso per reclutare nuovi agenti, e solo un pazzo, saltò fuori, non avrebbe tentato la fortuna.
‘Forse papà ha ragione’, diceva tua moglie. ‘Ormai hai due figli. È ora che la smetti di correre per l’autostrada con un furgone da trenta quintali.’
‘Bibliotecario. Messo comunale’ ti eri ribellato quasi subito. ‘Quello che volete ma non sbirro. Oltretutto, non ci ho neppure la presenza, da sbirro.’
Seguirono settimane di indottrinamento e promesse.
“Quando l’esercito tenterà il colpo di Stato”, disse il vecchio, che quarant’anni prima si faceva chiamare Uragano, ‘solo la Polizia Municipale, in questa città, scenderà a combattere con noialtri democratici.’
Erano argomenti che su un ragazzo di ventidue anni potevano anche fare presa.
Alle fine il padre di tua moglie ti aveva come anestetizzato. Le obiezioni che levavi, in quelle settimane del 1983 che precedevano il concorso, venivano recise alla radice, senza pietà e senza smettere di sorridere.
E poi, assicurava il padre di tua moglie, la fortuna era dalla vostra.
No, non sarebbe importato a nessuno, Giannino, se anni prima avevi partecipato a qualche corteo. Non facevi mica parte dei gruppuscoli di provocatori, no? Eri un pacifista, tu, e dei gruppuscoli non ti era mai importato un cavolo. In ogni caso, Giannino, verificare non costa nulla, e solo gli stupidi si fasciano la testa in anticipo.
Alla fine venne fuori, con una certa delusione da parte tua, che in questura non ti conoscevano, e questo secondo il padre di tua moglie era un enorme passo in avanti.
Il giorno prima del concorso, aveva ricordato alle orecchie giuste che eri un bravo ragazzo, un padre di famiglia e un antifascista a prova di tortura.
Perché nel 1983, in questa città servivano ancora determinate referenze, per vestire la divisa della Polizia Municipale.
“Pensa che i primi tempi” dici a De Simone risorgendo dal coma vigile dei ricordi, “subito dopo il corso, ho fatto domanda per entrare nella compagnia motociclisti.”
“Questo, però, me l’hai sempre tenuto nascosto.”
“Mi sembrava che ti rispettassero di più, se cavalcavi una Ducati. Perché all’inizio proprio non le soffrivo, le spiritosaggini che ti scivolano alle spalle mentre fai servizio appiedato.”
“Basta non prendersela”, dice De Simone. “E come mai non ci sei rimasto, nella compagnia motociclisti?”
“Non ci sono mai entrato. Ho fatto l’addestramento sulle Ducati, ma non faceva per me. Io al massimo sapevo guidare i cinquantini, e la Ducati è una moto pesante. Non osavo piegare, e in discesa avevo paura anche quando si trattava di andare dritti. Il giorno dell’esame sono uscito di strada sotto gli occhi dell’istruttore, e per poco lo stronzo non mi fa pagare anche i danni alla moto.”
“Alla fine meglio così, Yanez”, dice De Simone. “Sai quante fratture risparmiate? E poi, se proprio lo vuoi sapere, non ci sono veri democratici, nella compagnia-motociclisti.”
“Sì”, dici. “Molto meglio così.” Forse De Simone ha ragione. Senza contare che i colleghi della compagnia-motociclisti non ci vanno quasi mai, a operare gli accertamenti di residenza. “Ascolta, amico”, dici poi. “Il tempo cola, in questa stanza, e noi dobbiamo ancora mettere in bella copia i verbali.”


Enrico Brizzi


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