
Un’intervista senza censure agli Stand Up Comedian più amati, ecco cosa ci ha raccontato Eleazaro Rossi.
NOME: Eleazaro
COGNOME: Rossi
SOPRANNOME (SE C’E’): Enrico VIII
DATA DI NASCITA: 01/06/1982
LUOGO DI NASCITA: Forlimpopoli (FC)
SEGNI PARTICOLARI: parzialmente calvo, mani piccole
L’intervista a Eleazaro Rossi
Quando e perché’ hai iniziato a fare stand up?
Prima volta sul palco trenta aprile 2018, ma scrivevo stand-up grossomodo dal 2010, fun fact: dopo essere salito sul palco mi sono reso conto che la stragrande maggioranza di quello che avevo scritto negli anni era totalmente inutilizzabile, perché a quanto pare non puoi scindere le due attività, la scrittura e la performance live, ciascuna delle due si regge sulle spalle dell’altra.
Di cosa parla il tuo primo pezzo?
Il primo pezzo, che non faceva ridere nessuno, parlava della mia insofferenza per le file. Una cosa di una banalità disarmante che oltretutto facevo finire in maniera molto violenta e senza una risata. Ho una registrazione della mia prima volta sul palco e non sono mai stato capace di rivederla.
Di cosa parla il tuo ultimo pezzo?
Sto scrivendo un pezzo sulla vita dopo la morte di cui vado molto orgoglioso.
Quanto tempo ci metti a scrivere un pezzo?
Nella maggior parte dei casi: un’eternità. È molto raro che un pezzo “venga fuori” già pronto, mi è capitato forse una volta, normalmente ci sono quattro o cinque riscritture, una prova live, altre riscritture, altre prove live.
Cinque minuti funzionanti sul palco costano diverse ore di artigianato alla tastiera.
Quante volte provi una battuta che non funziona per cercare di farla funzionare per poi alla fine cestinarla lo stesso perché non funziona
Di solito la faccio sparire al secondo flop. Ma ci sono delle eccezioni, avevo scritto una battuta che mi faceva molto ridere all’interno di un pezzo sui sette giorni della creazione, il pezzo funzionava bene ma quella singola battuta faceva ridere solo ed esclusivamente me, ogni volta. Mi ci sono incaponito per mesi e alla fine mi sono dovuto arrendere: era una brutta battuta, aveva ragione il pubblico, ho smesso di farla sul palco. Però la faccio ancora tra me e me, rido come uno scemo, apro il monologo per reinserirla e poi mi percuoto con violenza il dorso della mano con una sottile canna di bambù che tengo sulla scrivania esattamente a questo scopo.
Qual è la battuta, tra quelle che hai scritto, che ti ha dato maggiore soddisfazione? Qual è la battuta che avresti voluto scrivere tu?
Non una singola battuta, un intero pezzo: “of course…but maybe” di Louis CK. E poi una pezzo di Renato Minutolo, che mi ha letteralmente sbriciolato (per quanto mi facesse ridere e per quanto cazzo fosse scritto bene) su Friedrich Nietzsche.
Qual è, se c’è, l’argomento che tratti o hai trattato spesso?
Il sesso – facendone pochissimo non mi resta che parlarne – e la religione – facendone pochissima non mi resta che parlarne – e il sesso.
Se non avessi visto (un personaggio, una serie tv, uno stand up, un film, i tuoi genitori etc) non saresti mai diventato uno/a stand up…
Credo mio padre, che non intenzionalmente – suppongo – mi ha insegnato l’autoironia, prima facendola su se stesso senza alcuna pietà e poi permettendomi di prenderlo in giro, di nuovo senza alcuna pietà. In qualche modo per un bambino il proprio padre è dio, se dio prende in giro se stesso finisci per credere che non esistono dei limiti sulle cose su cui puoi scherzare.
Cosa fai prima di salire sul palco?
Ripasso, scrivendo a mano una scaletta di quello che farò, anche se è repertorio fatto e rifatto, riscrivo i passaggi cruciali. Dovrei scaldare la voce, fare degli esercizi, dei vocalizzi, ma mi manca il background di attore e me ne dimentico ogni volta.
Cosa fai appena scendi dal palco?
Fumo una o due sigarette, immediatamente, ormai fumo solo quelle e lo faccio più che altro perché credo nei comportamenti irresponsabili e nell’importanza di dissentire. Ecco quello che resta del mio animo punk: due sigarette. A volte mi faccio pena da solo.
Cosa ti ha insegnato la scuola che ti serve oggi per fare il tuo lavoro?
Vorrei essere più chiaro possibile su questo punto: per fare questo lavoro la scuola non mi ha insegnato assolutamente nulla. Mia madre mi ha insegnato a leggere e a scrivere prima delle elementari, mio padre mi ha abituato a leggere la grande narrativa americana, un po’ di saggistica e la poesia della beat generation, mio cugino mi ha fatto conoscere il cantautorato italiano, i compagni di scuola – ecco, forse solo a questo è servita la scuola – il rock e il punk. La scuola di per sé è stata solo una lunga sequenza di giornate tediose, inutili e frustranti. Se tornassi indietro andrei a lavorare a sei anni.
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