
Quando nel 1996 è uscito il primo episodio della saga di Tomb Raider, avevamo la Playstation 1, in casa. Ci siamo trovati per la prima volta ad avere a che fare con la grafica poligonale, che significava personaggi e ambienti tridimensionali. E poi era rrivato quel personaggio, Lara Croft: aveva tutte le rotondità giuste al posto giusto, era un sogno per adolescenti (nerd, maschi), pistole da una parte, poppe dall’altra. Intendiamoci, poi Tomb Raider era anche un gran gioco, eh.
Sono passati quasi vent’anni, e quelli che giochiamo oggi sono praticamente film interattivi: i personaggi dei videogame non assomigliano più a mucchietti di cubi e coni stondati, ma ad attori veri. E saltare, correre, sparare – per quanto, nei panni di una archeologa degna del paginone centrale di Playboy, se mi passate il riferimento retrò – non basta più.
Tomb Raider: Definitive Edition è il debutto di Lara Croft sulla nuova generazione di console. Anche se poi in realtà si tratta di una conversione di un gioco uscito nel 2013 su Playstation 3 e Xbox 360: cambia solo la grafica, che diventa più definita, colorata, ombreggiata. Non se sia abbastanza. Però… Vi capita mai di fermarvi a guardare il panorama? Cioè, mica nella vita reale, nei videogiochi. A me è capitato raramente (su giochi come Uncharted o Bioshock). Ma con questa Definitive Edition di Tomb Raider, vi capiterà sicuramente.
Sono un fan della ciccia. Non su Lara Croft, ma nel senso che di un videogame mi interessa la storia, il sistema di gioco, più che l’impatto estetico. Però di fronte a un lifting così ben riuscito, bè, queste certezze traballano.
In fondo, il senso di Tomb Raider è sempre stato: guardare l’ambiente, capirlo, poi compiere il gesto corretto. E allora è giusto che l’edizione definitiva di quel gioco abbia in fondo sempre lo stesso obbiettivo: guardarsi intorno e poi muoversi. Anzi, muovere una ragazza bellissima a proprio piacimento.
Certe cose non cambiano mai, eh.
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