Davide Shorty: “Quanti ricordi con Smemoranda”

Davide Shorty è uno degli artisti che concorre per uno dei palchi più importanti, quello dell’Ariston, e lo fa con il brano Regina, presentato all’interno del programma AmaSanremo.

Proprio per quest’occasione, abbiamo intervistato Davide Shorty che ci ha raccontato come è nato questo brano, delle sue precedenti esperienze e… quanti ricordi con il diario Smemoranda!

Davide Shorty chi è
Chi è Davide Shorty? (ANSA) Smemoranda.it

Buona lettura e… buon ascolto di Regina!

Davide Shorty: l’intervista

Quali sono le cose che ti contraddistinguono nel panorama musicale? Perché dovremmo ascoltare un brano di Davide Shorty?

Penso di essere molto onesto (sono un pessimo bugiardo e se raccontassi bugie si capirebbe subito) quindi lo è anche la mia musica, sia dal punto di vista lirico, cioè del testo e del messaggio, che del sound.

Mi piace mescolare tutti i generi che adoro, sono un po’ un ricercatore, mi piace scavare, spendere tutti i miei averi in dischi, utilizzare campionatori per tagliare frammenti di album per poi rielaborarli, per renderli irriconoscibili e non farmi denunciare (ride).

Non faccio mai musica pensando a qual è il mio punto di forza o qual è la cosa che mi rende unico perché nasce dal bisogno, è come se respirassi, se dovessi mangiare e bere, atti che uno fa per sopravvivenza, è una questione di sopravvivenza: ho deciso di farlo come terapia, per analizzare quello che mi è successo.

Infatti, nella maggior parte dei casi, racconto la mia esperienza personale: essere un ibrido è sia il mio punto di forza che la cosa che mi rende complesso perché la complessità purtroppo può essere recepita come qualcosa di eccessivo, però, d’altro canto, mi rendo conto che gli esseri umani sono meravigliosamente complessi e quindi perché non ne esprimerne la complessità?

Davide Shorty intervista
Davide Shorty, l’intervista (ANSA)

Hai affermato che la musica è come una terapia. Cosa racconti della tua generazione? Ti senti anche un portavoce?

Non mi sono mai arrogato quel ruolo, non mi sono mai sentito un portavoce, ma cerco di raccontare la mia esperienza personale, quindi è anche un po’ egoistica come visione perché è un bisogno mio personale.

Se le persone si ritrovano quella è una cosa che va al di fuori di me e mi rende più che orgoglioso, felice, una linfa vitale perché ho un riscontro, mi fa capire che posso avere un effetto psichico su dei completi sconosciuti ed è un dono, quasi magia in un certo senso. Se le persone mi vedono come un portavoce non posso che esserne onorato.

Ti fa paura?

Cerco di combattere la paura, è una delle nemiche della vita! Da un po’ di anni ho iniziato a meditare, a fare un percorso spirituale, cercando di capire tutte quelle cose che mi fanno paura, che mettono in risalto il mio ego piuttosto che il mio spirito.

Crescere spiritualmente significa doversi assumere determinate responsabilità e cerco di accettare le cose che la vita mi propone, trovare il modo di farmele passare perché non sempre quello che ti mette davanti ti calza a pennello, quindi devi trovare un modo di poterci lavorare, di poterlo fare funzionare e, se serve, allontanartene.

Non necessariamente significa scappare, ma c’è un impulso, un input, un qualcosa che succede, che ti fa capire che quella non è la tua strada e, semplicemente, te ne allontani.

Essendo siciliano, sono cresciuto con la cultura dell’eroismo, prendendo spunto da eroi come Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: la paura è una nemica da combattere ed è quella cosa che devi trasformare in coraggio, che devi trasformare in energia da utilizzare per fare del bene.

Hai vissuto per alcuni anni a Londra, dove hai formato un tuo gruppo. Che differenze hai riscontrato tra il modo, l’approccio di lavorare ad un progetto tra l’Inghilterra e l’Italia?

Il termine di paragone ce l’ avevo nell’approccio al mestiere del musicista. In Italia, quando dicevo alle persone che facevo il musicista, mi chiedevano: “Davvero, cosa fai nella vita? Come ti guadagni da vivere?”.

In Inghilterra c’è curiosità ed il lavoro è strutturato, mi ha permesso di capire i vari ruoli (dagli uffici stampa, alle booking agency, fino al management), per me è stata una gavetta perché quando sono tornato in Italia mi sono reso conto che, almeno per il mio progetto, stavo un passo indietro perché dovevo creare una struttura che fosse consona a quello proponevo.

Inoltre, è fondamentale avere delle persone che credono nella tua musica, nella tua arte, che sposino l’idea che sta dietro al progetto, essere in sintonia con l’artista, altrimenti si fa fatica, specialmente se la proposta non risponde esattamente alle logiche del mercato.

Infatti, non mi considero un hit maker che compone per il puro scopo di vendere, non che ci sia qualcosa di male nel farlo, attenzione, non intendo assolutamente dire che quello non è fare musica, ma sono solo due approcci diversi della visione del business, perché la musica è anche un’ industria, quindi bisogna fare i conti a prescindere dall’approccio che si vuole adottare.

Ma, ho anche capito quanto sia importante parlare con la gente dopo un concerto e connetterti con le persone che ti ascoltano. Mi sono reso conto che la musica è veramente un mezzo di connessione senza limiti: ogni volta che finisce un concerto e parli con qualcuno, puoi scoprire delle cose pazzesche, l’effetto che la tua musica può avere sugli altri, consci vite diverse dalla tua!

Questo è sicuramente la cosa che può arricchire di più un artista: la connessione è vitale, dall’Italia all’Inghilterra, e penso che ogni Paese abbia bisogno di questo per crescere.

L’Italia, per una questione di retaggio culturale, a volte vede la musica e i lavori creativi un po’ meno “lavori effettivi”, però penso che questa cosa pian piano stia cambiando. Personalmente, in questo momento, sono estremamente fiero del team che si è creato attorno al mio progetto, non è una cosa scontata e ci troviamo in armonia.

“Regina” fa parte di una di queste storie post concerto oppure viene da tutt’altra parte?

Sai che sì! Assurdo! Hai fatto una domanda veramente giusta! La persona a cui ho dedicato “Regina”, Cèline, l’ho conosciuta dopo un concerto in Svizzera, quindi, sì, fa parte proprio di una di queste storie post concerto ed è partito dal sentire questa connessione e dire “Ah, che bella energia, conosciamoci!”.

Inoltre, è la stessa ragazza della copertina e del video, lei fa l’attrice di professione ed è anche per questo che ho deciso di coinvolgerla, oltre al fatto che siamo rimasti in buoni rapporti ed è nata una bella amicizia.

Ho scelto di raccontare la sua storia, la nostra, perché è un’artista a tutto tondo e c’è stata in alcuni momenti in cui componevo con la mia band, ci ha scattato delle foto, è una persona estremamente musicale.

Questa canzone nasce nel periodo in cui abbiamo passato una settimana in uno studio allestito vicino al Lago Maggiore, scelto pere scrivere i brani del nuovo disco e, dopo che abbiamo composto questa canzone l’abbiamo ascoltata tantissimo e ad un certo punto ho detto: “Ragà ma cosa abbiamo fatto? Vi immaginate a portala a Sanremo?”.

Un’affermazione arrivata direttamente dallo stomaco, perchè è un pezzo che riprende la tradizione cantautorale italiana, però allo stesso tempo ci mette tutto quello che siamo, i nostri accordi, dall’hip hop al soul, al jazz, al funk e li mette tutti insieme.

Ho pensato che una cosa così, forse, a Sanremo ancora non c’è effettivamente stata, quindi, perché non provare? Magari, l’esperimento potrebbe essere premiato!

Incrociamo le dita! Cosa vorresti lasciare su quel palco?

Mi riallaccio alla risposta che ti ho dato alla prima domanda: onestà. Sicuramente, sarò molto emozionato, anche se cercherò di nasconderlo, a volte funziona a volte no.

So solo che voglio lasciare qualcosa di vero, musica che è stata fatta col cuore a prescindere da tutto, una canzone che parla di vita vera, voglio divertirmi e contagiare le persone che ci ascolteranno.

Pensando all’Ariston, il mio sogno sarebbe proprio quello di portare la mia band, i ragazzi che hanno suonato il brano perchè potremmo divertirci insieme e coronare quello che era il nostro sogno fin dall’inizio, fin da quando lo abbiamo scritto.

Hai un ricordo particolare legato al diario di Smemoranda?

Ricordo benissimo l’intervista di Caparezza che mi aveva fatto sorridere: è un artista che ho sempre seguito molto, poi è diventato un amico! La cosa che mi fa “impazzire” è che nell’ultimo tour con i Funk Shui Project abbiamo fatto una data a Molfetta, paese di Caparezza, e lui è venuto a vederci e per tutto il concerto riuscivo a vederlo in mezzo a circa 400 persone. Impossibile non notarlo, è alto e…con i suoi capelli giganti! Mentre rappavo pensavo a tutti gli episodi che mi collegavano a lui e pure all’intervista sul mio diario Smemoranda!

Inoltre, sul diario Smemoranda ci facevo un sacco di disegni come i protagonisti di Dragon Ball, Goku, Vegeta, ci scrivevo pochi compiti per casa perché con la scuola non ci andavo molto d’accordo (studiavo solo le cose che mi interessavano).

Sono dislessico, quindi ho dei miei metodi di apprendimento, ecco perchè studiare sui libri mi è sempre pesato tantissimo, infatti non ho mai preso appunti, ho una calligrafia terribile, però paradossalmente disegno discretamente, è strano!

Tra l’altro, mi è capitato di prendere in mano il mio vecchio diario di Smemoranda e ho riletto le dediche che mi facevano i mie compagni di classe: da piccoletto ero un po’ sfigatello ed eccentrico, facevo fatica a creare legami all’inizio e quando sono entrato al liceo questa cosa è un pò cambiata perchè cominciavo ad avere i primi amici.

Era una cosa carina perché ai tempi non c’erano gli smartphone, avevo il cellulare, ma mai i soldi per la ricarica, gli sms! Ci lasciavo solo 50 centesimi di ricarica giusto per fare gli squilli, che se uno te lo prendeva per errore era finita perché non avevi più soldi!

La Smemoranda la collego alla prime interazioni sociali dove mi sono sentito accettato da un gruppo, ai primi due anni del Liceo, ai freestyle, alla ricreazione!

Ricordo anche due miei amichetti che facevano rap ed ero felicissimo perché non era molto di moda, anzi eravamo i tipi Yo Yo, i Rap in Sicilia ci chiamavamo, e durante la ricreazione c’erano quelli che venivano e ascoltavano interessati, altre volte ci sfottevano, quindi piano piano. Smemoranda mi riporta a quel periodo là, mi hai fatto venire alla mente un sacco di cose belle!

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