La prima volta che mi accorsi che qualcosa non andava nel mio modo di comportarmi tra i danesi avevo quattordici anni, mi ero trasferita a Copenhagen da cinque e seguivo con i miei compagni di classe la lezione di geografia politica della professoressa Rønne. In piedi vicino al planisfero quella donna bionda da cui mi sentivo costantemente osservata indicava con un righello le isole dell’Atlantico a ovest del Marocco. A un certo punto, senza rivolgersi a nessuno in particolare, chiese: -Vi domanderete forse a quale governo facciano capo queste piccole terre, perché in apparenza potrebbero sembrare sotto la giurisdizione politica di uno stato nordafricano…-
Istintivamente alzai la mano per rispondere e il suo sguardo si posò rapido su di me, interrogativo. Tutti i miei compagni mi fissarono con occhi tali che avrei voluto abbassare la mano immediatamente, ma ormai era troppo tardi. La professoressa Rønne mi fece un cenno del capo:
– Sì?
Presi coraggio.
– Le Canarie sono spagnole, signora, anche se a dir la verità a scoprirle è stato un italiano.
Ci fu silenzio. La professoressa non mi sorrise. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse:
– Come vi dicevo, benché queste isole siano più vicine all’Africa che alla penisola iberica, per ragioni storiche che ora vedremo esse ricadono sotto il controllo territoriale della Spagna…
Riprese la lezione come se nulla fosse, ma io avevo il viso in fiamme e non l’ascoltavo più. Percepivo di aver fatto qualcosa di stupido e scorretto, ma non avrei saputo dire con esattezza di cosa si trattasse. La spiegazione più probabile era che l’avessi offesa in qualche modo interrompendo la sua lezione. Era plausibile che quello che aveva chiesto – se ci stessimo domandando a chi appartenevano le Canarie – non fosse una vera domanda, ma solo una retorica richiesta di maggiore attenzione. Potevo aver capito male io. Anche se comprendevo bene il danese, non sempre comprendevo altrettanto bene i danesi e spesso mi capitava di non cogliere le allusioni o i toni delle cose che dicevano. Nel dubbio attesi la campanella della pausa e andai nel giardino con tutti gli altri, cercando la mia amica Siri per chiederle cosa fosse accaduto. La trovai appoggiata all’altalena che sbocconcellava un panino con Julie e Freja. Mi parvero tutte e tre sfuggenti, ma decisi di ignorare quella sensazione e prendere la questione di petto.
– Perché secondo voi la signora Rønne si è arrabbiata?
Si guardarono tra loro. Siri rimase in silenzio, ma Freja parlò e fu come una sferzata.
– Perché devi sempre metterti in mostra e crederti migliore degli altri.
– Ma non è vero! Lei ha fatto una domanda, io sono stata a Tenerife con i miei genitori due estati fa e so che sono spagnole… Se so una cosa e me la chiedono la dico, cosa c’entra il mettersi in mostra?
– C’entra che devi sempre saperne due righe più di tutti.
Guardai Siri e cercai di rompere il suo silenzio con il mio. Con i capelli chiarissimi e gli occhi di un cupo color lavanda, Siri era il mio opposto cromatico, fisico e caratteriale, ma era anche la mia migliore amica, o almeno così credevo, perché a guardarla in quel momento non c’era niente nel suo modo di fare che dichiarasse tra di noi una specialità di rapporto. Non fu sferzante come Freja, ma chiara altrettanto da farmi comunque male.
– Non dovevi alzare la mano, Donatella.
– Ma Rønne ha fatto una domanda!
– Non aveva chiesto a te. Non aveva chiesto a nessuno e infatti nessuno ha alzato la mano. Non crederai veramente di essere l’unica in classe a sapere che le Canarie sono spagnole?
Ammutolii. Rimasi davanti a loro qualche istante, poi voltai le spalle e me ne andai. Siri cambiò banco e non mi cercò più. La professoressa Rønne la settimana successiva si lamentò con mia madre del mio atteggiamento arrogante e sfrontato. Mamma ascoltò la mia spiegazione e poi mi punì con una settimana lasciandomi senza pallacanestro e facendomi una clamorosa ramanzina sulla mia mancanza di umiltà. A mio padre la ragione della punizione non era altrettanto chiara, ma lei era danese e lui un italiano che aveva accettato di trasferirsi nel paese della moglie perché i servizi erano migliori e gli stipendi più alti: davanti alle regole del paese di mamma alzava le mani e si adeguava, anche quando ci andavo di mezzo io.
Quella volta pensai che fosse stato un incidente e che col tempo avrei capito meglio anch’io come funzionavano le cose, perché forse i miei compagni e i mie professori avrebbero realizzato che il mio era entusiasmo e non arroganza. Non andò così. Non erano loro che dovevano capire, ma io. Sarei stata punita molte altre volte prima di realizzare che se volevo vivere tranquilla dovevo rispettare anche io la legge di Jante. Dall’università all’ufficio, dalla palestra al bancone del bar, imparai a mie spese che la cosa più sbagliata da fare in Scandinavia non era avere la risposta giusta, ma cedere alla tentazione di farla vedere. La mia presa di coscienza avvenne per progressive negazioni e scomparse della mia individualità arrogante. Se saltava fuori che ero brava in qualcosa, tutti smettevano di chiedermi di farla. Chi si accorgeva che avevo una bella voce non mi chiedeva più di intonare una canzone. Sono sempre stata sveglia in matematica, ma nessuno mi ha mai domandato aiuto per capire un esercizio. Naturalmente questo non succedeva solo a me, come avevo pensato appena arrivata. Accadeva a tutti quelli che per qualche motivo sembravano avere un modo speciale di svolgere le attività comuni. Lars era un genio in fisica, ma la volta che provai a dirglielo pubblicamente divenne rossissimo e mi guardò come se lo avessi insultato. Therese era agile e correva come un’antilope, ma il padre non la iscrisse mai alle prove agonistiche, perché non si montasse la testa. Anche io ho corso un grosso rischio con la mia voglia di diventare speciale in qualcosa. Se mamma mi avesse fatto studiare musica o matematica sul serio avrei potuto pensare di essere un’eccellenza, come si dice adesso in Italia, ma il guaio di arrivare in alto è che poi cominci anche a pensare che sia giusto che qualcuno stia sotto di te, perché sa fare meno cose o è meno bravo nel farle. Penserai che gli spetti meno del tuo stipendio o qualcuno in meno dei tuoi diritti. Penserai che i tuoi figli dovrebbero andare in una scuola migliore di quella dei suoi. Che la sua pensione debba essere inferiore. Che la tua salute valga più della sua. Chi persegue il suo successo non lo comprende, ma è così che nascono le disuguaglianze sociali: qualcuno a un certo punto comincia a credersi migliore degli altri e poi da lì è tutta discesa. La legge di Jante dice non solo che tutti siamo uguali, ma che tutti dobbiamo essere uguali. A qualcuno potrà sembrare difficile da capire, ma poi vengono qui, vedono come viviamo ed è difficile non pensare che forse è proprio quello il segreto di una buona società e di un’alta qualità della vita. Non abbiamo geni della matematica come in America, ma neanche poveri o senzatetto. Non abbiamo grandi stilisti e creativi come in Italia, ma la sanità e la scuola sono di altissimo livello per tutti. Sarebbe interessante chiedere a un homeless del Bronx se preferisce avere un tetto sopra la testa e un piatto caldo davanti oppure vantarsi di vivere in un paese che ha dato i natali a Beyoncé. Io a quattordici anni avrei dovuto pensarci un attimo prima di rispondere, ma ora non avrei dubbi. Ho quarant’anni e due bambini nati e cresciuti a Copenhagen. Lila ha una grande intelligenza musicale e sospetto che abbia persino l’orecchio assoluto, perché riconosce i suoni con grande precisione anche se ha solo dieci anni. A volte si pianta davanti alla tv a guardare quel programma importato dove si fanno gare di canto, X Factor mi pare si chiami, e una volta mi ha chiesto -Mamma, secondo te io ce l’ho l’X Factor?- Le ho detto che siamo tutti uguali e che l’X Factor è un’invenzione della televisione, ma io e suo padre abbiamo capito che era arrivato il momento di orientare le scelte future verso gli studi di ingegneria o di fisica. Mario ha otto anni e somiglia molto di più a suo padre, per fortuna. Non alza mai la mano per primo a scuola, non fa record nello sport, non ha particolari doti rispetto ai compagni e sembra felice così. Mio padre oggi è venuto a trovarci, per fortuna lo fa sempre meno, e mi ha detto che lo sto crescendo mediocre, eppure lo sa che in Danimarca questa parola non ha nessun significato. Noi preferiamo dire “equilibrato”. Nessuno sotto, nessuno sopra, tutti felici. -E l’eccellenza? E se avesse qualcosa di più da dare?-, mi ha detto lui, che avrebbe tanto voluto vedermi fare la carriera accademica in una facoltà scientifica e invece mi ha vista sposare un impiegato delle poste senza grilli per la testa. Come lo spiego a mio padre, l’emigrato italiano che la Danimarca non l’ha mai capita, che l’eccellenza non esiste da sola? Per essere la punta di un diamante bisogna che ci sia un diamante dietro e che il risultato brillante arrivi come coronamento di un processo collettivo virtuoso. Se l’eccellenza è questo, nessuno ha diritto di vantarsene, perché il merito è di tutti. Chiunque pensi che sia merito suo non è più un’eccellenza: è un’eccezione, uno che ce l’ha fatta nonostante gli altri. Mentre cerco di spiegarglielo si sentono i bambini in giardino che giocano e litigano. Dal divano sento le grida di Mario a sua sorella -Smettila! Chi ti credi di essere?- Lila risponde: -Più grande di te di sicuro!- Papà sorride compiaciuto e mi guarda con aria di sfida. Anche io sorrido e non sono preoccupata, perché da bambina ero come lei.
Si impara meglio crescendo, la legge di Jante.